Lo spazio incurvato dell’architettura. Intervista a Paolo Portoghesi
A pochi giorni dalla morte di Paolo Portoghesi, lo ricordiamo con un’intervista rilasciata nella sua dimora di Calcata e pubblicata nel 2020
Inutile rievocare quanto, nella seconda metà del Novecento, gli architetti post-moderni possano aver innervosito gli ambienti ortodossi della teoria modernista. La storia è risaputa e Paolo Portoghesi (Roma, 1931 – Calcata, 2023), architetto di grande notorietà, è stato il capofila dei post. Fu bersagliato di critiche per aver riaperto “la finestra sulla storia”, adottando la linea “curva” come lemma essenziale del suo linguaggio costruttivo. Nato a Roma nel 1931, è stato anche un accademico di lungo corso, saggista e studioso del Barocco con una predilezione per l’architetto Borromini, suo punto di riferimento intellettuale, professionale e forse anche etico. Lo incontrammo per un’intervista qualche tempo fa nella sua residenza di Calcata, un antico borgo nel verde, tra la campagna a nord di Roma. Lo stesso luogo in cui si è spento pochi giorni fa.
Lo scorso anno (si intende il 2019, N.d.R.) si è festeggiato il sessantesimo anniversario della costruzione di Casa Baldi, un villino unifamiliare in un’area di verde intenso alle porte di Roma. Fu la sua prima opera, eppure è entrata nella storia. Vogliamo rievocare questo suo inizio?
Dopo qualche lavoro insieme a dei colleghi, Casa Baldi è stato il mio primo progetto in assoluta autonomia, realizzato tra il 1959 e il 1961. Nonostante i decenni trascorsi, per me continua a essere l’opera prediletta, insieme alla grande moschea di Roma.
Per l’occasione si festeggiava anche la conclusione del suo restauro per un rilancio funzionale; incarico affidato a lei, in quanto ne padroneggia le implicazioni materiali e concettuali. Resta un’opera coraggiosa per un architetto ventottenne. E dunque?
Avevo concepito Casa Baldi con delle pareti curve, concave all’esterno, e con l’accentuata sporgenza di un cornicione, per cui l’opera trasgrediva i rigorosi canoni stilistici di quell’epoca. Era un progetto in polemica con il razionalismo, il quale nel giro di alcuni anni cominciava a morire, quando invece l’architettura richiede una durata quasi eterna. Ero convinto che bisognava scrollarsi di dosso i miti del razionalismo, e in un certo senso la storia mi ha dato ragione. Il mio fu un atto di ribellione anche contro quello che mi avevano insegnato all’università, cioè di stare sul binario dell’International style. In definitiva, seguire un decente conformismo, senza altre ambizioni. Però in questo caso il committente mi aveva lasciato completamente libero, senza riferimenti.
Un committente ideale, quindi…
Beh, ideale fino a un certo punto. Penso che in un progetto sia bello fare il ritratto del committente, invece mi si richiedeva di fare quello che volevo, pertanto mi era mancato il suo suggerimento. Eppure il risultato ancora mi sorprende.
PAOLO PORTOGHESI RACCONTA IL PROGETTO DI CASA PAPANICE
Alcuni anni dopo lei progettò Casa Papanice, un villino a più piani in un’area semicentrale di Roma, e che, nonostante certe caratteristiche proprie anche nei materiali, riconfermava l’idea di un’architettura dalle linee curve, introducendo anche il colore.
Lì mi ero proposto di fare una casa che piacesse ai bambini che, stando in città, desiderano di uscirne. In quel periodo pensavo molto al momento formativo dell’infanzia. È una costruzione intesa come rifiuto della città, quasi invisibile dall’esterno perché è circondata da fitti alberi. Il rivestimento esterno dell’abitazione, costituito da tubi uno accanto all’altro, era in un certo senso un riferimento all’architetto barocco Borromini, prendere una forma – nel suo caso il triangolo – e applicarla sistematicamente. Io scelsi il cilindro, che poi è alla base di tutto. Quella costruzione nasceva da un’idea razionalista: la Casa Schröder di Rietveld, trasformata in un edificio barocco. Sostanzialmente è “la curva” che io poi ho perseguito per tutta la vita, una mia preferenza in senso assoluto. Il committente, un costruttore, mi aveva chiesto una cosa curiosa, che fosse un’architettura clamorosa, tanto da poter essere ripresa nel cinema. Una cosa riuscita perché effettivamente vi furono girati dei film, uno dei quali, nel 1970, con l’attore Marcello Mastroianni per la cui interpretazione vinse la Palma d’oro al Festival di Cannes.
Esiste un motivo per cui lei preferisce la curva?
Guardi, posso spiegarlo riferendomi al concetto di campo di Einstein, quindi se prendo una linea retta creo uno spazio neutro, mentre la linea curva da una parte comprime lo spazio e dall’altra lo dilata. È un modo di operare diretto sullo spazio, ma soprattutto per cambiare la densità dello spazio.
Ricostruendo gli eventi dell’architettura contemporanea, c’è chi ha affermato che Casa Papanice è uno dei primi esempi di post-modernismo al mondo. Lei concorda?
Non è di questo parere l’americano Charles Jencks – uno dei più influenti teorici di modernismo e postmodernismo –, nella prima edizione di Language of Postmodern Architecture vi inserisce Casa Baldi. Invece Casa Papanice l’ha inquadrata nel late modern, nel tardo moderno.
IL POSTMODERNO SECONDO PAOLO PORTOGHESI
A lei sta bene la definizione di architetto postmoderno, se non anche di essere uno dei fondatori di questa tendenza?
Certamente io ho aderito a questo movimento, o forse ne sono un precursore, ma sono deluso dai risultati, perché poi questo movimento ha preso una piega ironica e infine eccessivamente autoironica, rasentando il cattivo gusto.
Questa sua critica impone una domanda ulteriore sui pregi e i difetti: quali sono per lei i pro e i contro?
Tra gli aspetti positivi del postmoderno c’è il fatto di essersi adeguato a una nuova sensibilità che si era creata, quindi è stato un liberarsi da una serie di schiavitù. L’aspetto negativo sta nel cinismo di voler fare qualunque cosa. Io partivo dall’idea che l’architettura doveva riconquistare il senso del luogo, doveva nascere dal luogo. Casa Baldi ad esempio è fatta così perché il Tevere si curva lì davanti, perché il tufo delle mura è il materiale di cui è fatta la collina su cui è posta, perché nei pressi c’è un monumento romano. Insomma, il legame con il luogo è la mia filosofia, in cui rientra anche l’idea della linea curva, costruita geometricamente, in quanto strumento formidabile di modellazione dello spazio. Storicamente il postmoderno è stato un riaprire la finestra verso il passato. Ma adesso non si sa più neppure cosa significhi, è diventato un modo di servirsi di qualsiasi cosa, e questo non mi piace.
Un personaggio autorevole che si identificava nel postmodernismo è stato Hans Hollein, architetto austriaco che sicuramente lei ha conosciuto da vicino. Lui, nel 1985, ricevendo il Pritzker Price, affermò di considerare prioritariamente l’architettura come un’arte, cioè una esperienza creativa, e non vederla in prima istanza come soluzione a un problema. Dunque, di fronte a questa affermazione, si deve dedurre che esistano almeno due linee distinte e opposte: una autonoma che, per l’appunto, valorizza la creatività e l’individualità, e all’opposto una linea eteronoma, quella in cui lei si colloca, una concezione che vede nell’architettura l’incontro di elementi differenti, come la storia, l’antropologia, la morfologia del luogo. È corretta questa valutazione?
Effettivamente sì, ma riguardo a Hollein non ero al corrente di quelle sue dichiarazioni, anche se dalle sue opere si può dedurre questo atteggiamento. L’ho conosciuto molto bene: è anche venuto a farmi visita qui a Calcata. Nel 1980 lo invitai a esporre alla prima Biennale veneziana di Architettura, ne ero il direttore e in quanto tale l’avevo intitolata La presenza del passato. Tra gli architetti invitati, lui è stato, forse, quello a me più vicino. Però eravamo su posizioni diverse: Hollein aveva alle spalle un’attività artistica di tipo radicale e, come architetto, conservava questa sua concezione di autonomia della costruzione. La mia linea è diversa, l’architettura è, sì, un ambito che comprende l’arte, ma non è solo arte. In quanto linguaggio è anche altro, e non sempre rientra nella categoria del sublime, come con Michelangelo e altri grandi.
DA BORROMINI ALLA STREET ART
Come considera il rapporto Natura/Architettura?
A questo tema ho dedicato un libro, intitolato proprio Architettura e Natura, che è stato tradotto anche in inglese con un certo successo in America. Io sostengo, come sosteneva già Einstein, che non c’è nulla che l’uomo abbia inventato che non sia già nella natura. Dunque studiandola vengono fuori le idee creative su cui si basa l’architettura. Insomma io vedo la natura come maestra dell’architettura; per esempio, la natura è rigorosamente economa, e nelle sue forme c’è assoluta esattezza, cose che misteriosamente riappaiono nella vita. Con i miei studenti sono molto deciso nel dire che bisogna evitare di riprenderne direttamente le forme, perché prima bisogna capire i processi, e solo dopo averli compresi la natura diventa maestra, altrimenti si fa una rozza imitazione formale.
Un suo parere sulla street art, visto che questo fenomeno artistico compare sempre più spesso sui muri delle città.
La street art può essere vista come la riscoperta della figurazione, e la necessità dell’arte di farsi capire da tutti, contro una élite d’esperti di una creatività incomprensibile dalla maggior parte delle persone.
Quale valore ha la luce in una costruzione? È molto importante, per esempio in Borromini, di cui lei è un profondo conoscitore.
La luce è l’elemento più immateriale tra i materiali di cui un architetto dispone, e uno degli aspetti determinanti del linguaggio architettonico. Borromini – dato che lei lo fa rientrare nel discorso – nei suoi edifici religiosi modellava la luce naturale come un pittore può adoperare un colore, e cioè per dare visibilità all’invisibile, per comunicare il senso del divino. In alcune chiese tra quelle che mi sono state commissionate, ho spesso affrontato il problema risolvendolo con qualcosa che ho chiamato “doppia fodera” tra interno ed esterno, un muro che poggia a terra e uno in alto. Ho realizzato una suddivisione tra terra e cielo, quindi ponendo in mezzo un intervallo di luce riflessa dal basso verso l’alto. È stato un modo di portare avanti un suggerimento di Borromini, adoperando tecnologie di cui lui non disponeva.
Nella grande moschea di Roma che lei fu chiamato a costruire e che è riconosciuta come il suo capolavoro, come si è regolato con l’elemento luce?
Nella moschea la soluzione è simile, ma non è data dalla doppia fodera. L’intervallo tra il basso e l’alto è dato da una fessura di luce continua, resa possibile dal fatto che tutta la parte superiore è sostenuta da pilastri. A schermare la luce ho posto un pannello, continuo anch’esso, su cui sono riportate le iscrizioni coraniche. Quello che volevo comunicare è che dalle parole del profeta nasce la luce.
Lei ha inaugurato un settore disciplinare, chiamandolo Geo-architettura, divenendo il titolare di una nuova cattedra all’università La Sapienza di Roma. Può focalizzare gli aspetti essenziali?
La parola Geo-architettura non è mia, è di Le Corbusier. Quando ho cominciato a interessarmene non ne ero a conoscenza, comunque i contenuti sono differenti. Sono partito traducendo la geofilosofia, una tendenza nata in Francia con importanti rappresentanti. Partendo da là ho pensato che l’argomento dovesse volgersi verso l’ambiente, inteso in senso globale, attraverso un uso consapevole dell’architettura per rimediare al disastro ambientale per colpa dell’uomo. Per esempio affronto il tema sulla nostra era geologica, chiamata antropocene, oltre la quale c’è la trasformazione del pianeta in un ambiente non più abitabile dal genere umano. Per questo io non credo molto all’architettura come un’arte, ma piuttosto come cura: cura della città e del territorio. Quando mi chiedono cos’è l’architettura, ormai da quarant’anni io rispondo che è un aspetto del lavoro umano.
Franco Veremondi
Questa intervista è stata originariamente pubblicata nel numero di dicembre 2020 (#12 / 2020) della testata Architektur & Bau Forum, allora di proprietà della casa editrice Österreichischer Wirtschaftsverlag GmbH. È stato possibile pubblicarla su gentile concessione dell’autore. Il ritratto fotografico di Paolo Portoghesi in apertura è di Moreno Maggi.
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