Didascalica e assertiva. Tutti i limiti della Biennale Architettura 2023
Architetto, professore e autore, Valerio Paolo Mosco non le manda a dire – per punti – alla Biennale Architettura curata da Lesley Lokko, salvando il progetto presentato dal’Uruguay
Data una Biennale dai toni assertivi e sintetici, proverò a rispondere a essa con toni simili, sebbene non siano affatto quelli con cui di solito intendo esprimermi. Lo farò per punti così da rendere più agevole la confutazione degli stessi.
– Alla Biennale di Architettura ci sono pochissime architetture: è una Biennale che sembra volerci dire che è necessario andare al di là degli edifici; che gli edifici, e le idee di città, sono ormai superflui. Sembrerebbe questo il prezzo da pagare per diventare post-colonial, per finalmente aprici all’“altro”. Prezzo alto, anzi altissimo, ma ipotizziamo di accettarlo.
– Accettato il presupposto, ci chiediamo se in altre discipline, che non siano l’architettura, è stato questo il prezzo pagato. Non lo è stato. La Biennale dello scorso anno ci ha presentato artisti non occidentali di valore – tra i tanti viene in mente Belkis Nyòn, ma se ne possono trovare altri. Idem in letteratura: gli scrittori post-colonial non hanno rinunciato all’arte di scrivere romanzi, anzi. In questo caso viene in mente Mohamed Mbogor Sarr con il suo La più recondita storia degli uomini, un romanzo strabiliante, giustamente insignito del Premio Goncourt. Se ne deduce che il livello dell’architettura post-coloniale è talmente basso da non valere la pena di essere esposto. Probabile, ma ciò andrebbe indagato con maggiore attenzione di quanto è stato fatto.
– Ci si chiede inoltre cosa rimane dopo aver oltrepassato l’architettura: ben poco sembrerebbe, se non un enorme oceano di buone intenzioni che più che post-coloniali appaiono decisamente coloniali. Come coloniali sono le accademie occidentali (segnatamente quelle statunitensi, veri curatori di questa Biennale) che, per non affrontare le proprie responsabilità, si gettano nell’indistinto oceano dell’“altro”.
UNA BIENNALE ARCHITETTURA CHE RINUNCIA AL DUBBIO
– La volontà di andare oltre l’architettura è espressa in questa Biennale con slogan, toni assertivi, mai dubitativi, attraverso un linguaggio la cui corta semantica è pari a quella delle opere esposte. Impossibile trovare un verbo al condizionale, latitanti i congiuntivi. Colpisce la citazione di Anatole France all’ingresso dell’Arsenale; uno scrittore che rappresenta la quintessenza dell’occidentalismo ottocentesco, del tutto inappropriato a essere citato in una mostra che si pone come alternativa radicale ai canoni occidentali. Curare una mostra, se si accetta la figura di un curatore, è proprio curare ciò che è esposto, ovvero fare in maniera di fornire una narrazione coerente e coesa di una interpretazione critica. Evidentemente, ci dice questa Biennale, anche questa ipotesi fa parte di un mondo da archiviare.
– Cosa accade nell’indistinto mare dell’“altro”? Si parla per gli altri, e si parla per gli altri il più possibile lontani. I nuovi colonizzatori post-coloniali allora sussumono da probabili analisi quali siano i bisogni dell’altro e li mettono in mostra a suon di slogan. La Biennale è nient’altro che un cahiers de doléances di “gente” che non metterà piede alla mostra anche perché sono miliardi. Ma il cahiers de doléances durante la Rivoluzione lo hanno stilato coloro i quali erano parte interessata e lesa delle angherie del re, dei nobili e del clero. Alla Biennale invece ci sono decine e decine di avvocati degli altri, della “gente”, che si sono auto-delegati a rappresentare chi non conoscono, o conoscono a stento. A quanto mi risulta non ci sono state delle elezioni che hanno sancito il diritto di rappresentanza: esso è stato semplicemente estorto. Nella mia educazione cattolica ricordo degli ammonimenti: rispetta il dolore altrui; abbi il dovere di non parlarne; pensa al prossimo per quel che ti compete. Per quel che ti compete…
LA BIENNALE ARCHITETTURA È DIDASCALICA
– Ci si chiede qual è la tonalità generale di questa Biennale? È quella didascalica. Si intende per didascalico ciò che accorcia al massimo la distanza tra segno e significato, tra forma e contenuto. Tutto è veloce nel didascalico, la morale della storia è immediatamente chiara: sfumature, puntualizzazioni e chiaroscuri sono evitati. L’opera didascalica è consumabile, non a caso le opere consumistiche sono didascaliche. Ciò potrebbe non essere un problema, ma siamo parlando di arte e da sempre ciò che tiene insieme l’arte, nella sua strabiliante molteplicità, è la ferma opposizione ai cliché, al didascalico. Perché allora andare a vedere una “Fiera del didascalico”?
– Eppure la modernità ha messo a punto delle tecniche per evitare il didascalico: l’astrazione, lo straniamento, il “cadavere squisito”, il collage… possiamo continuare. Nel colonialismo post-coloniale tutto ciò deve essere cancellato: gli avvocati del bene comune non si perdono in simili sottigliezze; essi sono, per conto delle accademie, in missione. Non intendono essere disturbati.
COSA SALVARE DELLA BIENNALE ARCHITETTURA 2023?
Quanto detto è chiaro in uno dei pochissimi padiglioni visitabili in un tempo superiore ai 3 minuti: quello dell’Uruguay, in cui possiamo vedere un video sulle ben note tematiche ambientaliste (in questo caso la deforestazione), ma la grana e la sottigliezza di una narrazione, per nulla assertiva e grossolana, ci seduce ribadendo che, allorquando si parla di arte o affini, la questione è innanzitutto di forma. La forma incarna i contenuti e li trasfigura in un’altra dimensione. Dimensione variegata, ma di conoscenza e di elevazione spirituale. Finora è stato così: se le cose cambiano, rimaniamo fedeli al nostro anacronismo. Ultima notazione. Due delle poche sale dedicate a quella che ci ostiniamo a chiamare architettura. Flores e Prats mettono in mostra una loro abilità del tutto incongruente con il tema dell’esposizione. Lo studio Adjaye Associates mette in mostra modelli di architetture enfatiche di International Style coloniale di altri tempi, del tutto fuori scala. È questa la scala e il linguaggio del post-colonial? Rifiutiamo di crederlo. Per estensione rifiutiamo di credere che questa Biennale sia rappresentativa di un qualcosa.
Valerio Paolo Mosco
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