La grande mostra su Norman Foster al Centre Pompidou di Parigi
Si presenta come l’architetto a cui guardare in futuro il progettista inglese che vanta oltre sessant’anni di carriera e una fiducia smisurata nella tecnologia. E la mostra parigina è insieme testamento e dichiarazione di intenti
La mostra dedicata a Norman Foster (Stockport, 1935) al Centre Pompidou a Parigi è imperdibile. Per almeno due motivi: per la sua vastità e per il problema che pone.
Mai il museo parigino aveva dedicato tanto spazio, la sua galleria numero uno, a un evento di architettura, e mai se ne era visto uno che occupava 2.200 metri quadrati: costoso, ben fatto, esaustivo. Tanto che alcuni commentatori hanno parlato di una retrospettiva futura. Come se Lord Norman Foster, ormai non più giovane, abbia voluto, da vivente, scrivere il proprio epitaffio, dando la chiave di lettura per comprendere la rilevanza della sua opera.
E, difatti, il racconto, per quanto vi sia un curatore e non di scarsa statura, Frédèric Migayrou, appare teleguidato. D’altra parte sono anni che in eventi come questi la figura del critico è laterale. Basti pensare alle mostre di Renzo Piano che sembrano fatte seguendo uno stesso filo narrativo, più o meno indipendentemente dal curatore di turno. E, si direbbe, nel caso di Norman Foster la posta è talmente alta che non può che essere l’architetto stesso a condurre il gioco. Quando mai, oltretutto, sarebbe stato possibile riavere solo per sé il centro Pompidou, e cioè il monumento per eccellenza della moderna poetica tecnologica, bruciando sul tempo altri possibili rivali che avrebbero al suo posto potuto mettere in discussione il primato che, invece, in questo modo Foster evidenzia e sottolinea: essere lui il maggiore protagonista dello stile high tech?
La mostra su Norman Foster al Centre Pompidou
Ufficialmente la mostra è divisa in sette sezioni, ma, a mio avviso, le parti sono quattro.
La prima è dedicata ai disegni dell’architetto. È la più importante. Mostra che Foster, conosciuto come il più grande interprete dell’estetica tecnologica e quindi alleato del computer, sa disegnare a mano così come l’accademia richiede ai suoi migliori discepoli. Evidenzia, inoltre, che i progetti non sono frutti anonimi dei 1800 dipendenti dello studio, ma ciascuno è opera autografa del Principale. State entrando, dicono tutti questi fogli a matita, dentro un mondo immaginato da un artefice d’eccezione, non all’interno di un’opera prodotta da un anonimo collettivo internazionale privo di un’anima ben identificabile.
La seconda sezione risale alle fonti teoriche e poetiche, con l’obiettivo di mostrarne la consistenza culturale. Lo fa con una mossa astuta e significativa: ricucendo il filo ideale che lega la macchina per abitare di Le Corbusier alle ricerche di Buckminster Fuller, quest’ultimo presentato come il vero protagonista della modernità. D’altronde basta osservare la Dymaxion car, progettata nel 1934, per capire quanto Fuller fosse un visionario, avanti rispetto alla sua epoca. Foster, che ha lavorato con lui per oltre un decennio, ne diventa idealmente l’erede. E, per sottolinearlo, inserisce accanto ai modelli di Buckminster, opere di Umberto Boccioni, Constantin Brâncusi, Sol LeWitt, telai di auto e anche l’automobile di Le Corbusier pazientemente fatta restaurare.
I progetti di Norman Foster. Dall’high tech all’ecologia
La terza sezione è dedicata alle principali opere, illustrate da dettagliati disegni, minuziosi plastici, video dal forte impatto comunicativo. Dalle opere degli Anni Settanta in cui nasce l’high tech a quelle più recenti quali gli headquarter della Apple a Cupertino e di Bloomberg a Londra. Due edifici che mostrano quanto la fase muscolare del primo periodo high tech sia ormai conclusa per una ricerca che predilige gli aspetti soft e il confronto con le problematiche legate all’ecologia e al risparmio energetico. Non mancano le grandi infrastrutture, quali l’incredibilmente ardito viadotto di Millau e aeroporti in numerose capitali, Londra compresa. Vi sono opere quali il Reichstag a Berlino o l’ampliamento del British Museum a Londra che mostrano la capacità di Foster di lavorare anche in contesti ambientali storicamente caratterizzati. Non basterebbero una decina di visite per esaminare esaustivamente tanti progetti così ben illustrati. Tuttavia, basta già il colpo d’occhio per farci rendere conto della vastità della produzione dello studio e degli altissimi livelli qualitativi.
La visione del futuro di Norman Foster
Il colpo di teatro finale è nella quarta sezione. Con due sale e altrettanti video. Il primo è una lunga intervista a Foster fatta dal curatore Migayrou: pesata parola per parola, ha lo scopo dichiarato di affrontare, se non le si fossero capite, la storia e la poetica del personaggio. Il secondo video racconta come la tecnologia, targata Foster, può servire nel futuro. Permettendo la costruzione di basi spaziali sulla luna, generando nuove tecnologie per usare l’energia nucleare e migliorando la vita nel terzo mondo, attraverso sistemi combinati di postazioni architettoniche e droni. È sciocco non avere fiducia nella tecnologia. È solo affidandoci a questa che è possibile immaginare un mondo migliore, ecologicamente sano, che impiega risorse compatibili e innovative. Un testamento, quindi, rivolto a coloro i quali riusciranno a fare i conti con questa tradizione, che è a questo punto indelebilmente segnata dai contributi di Le Corbusier, di Buckminster Fuller e, ovviamente, di Lord Norman Foster. Esattamente da quel Norman che veniva da una famiglia piccolo borghese di Manchester e che nel giro di una sessantina di anni ha messo in piedi uno degli studi di progettazione più innovativi al mondo.
La tecnologia è davvero la soluzione?
Ecco perché, dicevamo in apertura, che la mostra non è rilevante solo per la sua vastità, ma per il problema che pone. Questa ben costruita narrazione, fatte le dovute tare di egocentrismo (inevitabile in tutti i discorsi in cui gli architetti parlano di se stessi), è credibile? La risposta è a mio avviso discutibile. Prendiamo il recente edificio per Bloomberg, giudicato un fiore all’occhiello dello studio e nella mostra molto in evidenza. Mette in gioco soluzioni strabilianti dal punto di vista del risparmio energetico, dell’intelligenza progettuale, e nell’uso di nuovi materiali eco-compatibili. Ma, se guardiamo il manufatto finale, con difficoltà riusciamo a vederlo come una promessa di un futuro felice: sembra un magnifico e lussuoso allevamento per polli in batteria. La sensazione è che tanta intelligenza sia adoperata non per costruire un futuro nel quale vorremmo vivere ma un habitat, certamente confortevole, per meglio produrre. E così é un po’ per tutti gli edifici di Foster: razionalizzano i problemi e non riescono a metterli in discussione. Si dirà: non è compito del progettista. Certo è però che i grandi architetti questa capacità di prefigurare un mondo altro – si pensi per esempio a Frank Lloyd Wright – l’hanno avuta, a volte solo con la forza di un’immagine liberatoria. Rispetto ai nuovi sogni di libertà, Foster rimarrà sempre e solamente un grande razionalizzatore, forse imprigionato nella sua stessa idea di tecnologia come soluzione. Il futuro speriamo e vogliamo credere, ci presenterà altre risposte: ecco perché questa mi sembra una mostra che chiude un ciclo, e non una che ne apre uno nuovo. E che, proprio per questa ragione, occorre andare a vedere.
Luigi Prestinenza Puglisi
Parigi // fino al 7 agosto 2023
Norman Foster
CENTRE POMPIDOU
Place Georges-Pompidou
www.centrepompidou.fr/
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