L’horror vacui della rigenerazione urbana
Quando si parla di rigenerazione e riqualificazione urbana bisognerebbe evidenziare non solo gli aspetti positivi, ma anche le problematiche della progettazione
Sono anni (o forse decenni?) che si parla di rigenerazione urbana. Sono anni che ogni vuoto, urbano ed extra-urbano, è un’occasione mai perduta per gridare al fallimento. Un fallimento imprenditoriale, collettivo, etico. Il vuoto, nelle nostre città, è sempre visto come uno spazio da riempire. Non è altro che una mancanza di senso cui porre rimedio.
Si avviano così progetti, processi, investimenti. Si incontrano e si scontrano le resistenze, gli interessi contrapposti, le parti sociali che vanno necessariamente coinvolte, anche sotto il profilo finanziario.
Pochi si ergono alla difesa del vuoto.
Nonostante le esperienze negative. Nonostante il Novecento abbia lasciato dietro di sé le proprie rovine: Dallas, Cincinnati, Kansas City, Baltimora e persino Miami. Certo, si trattava di interventi diversi, in qualche modo stimolati e governati da un approccio di sviluppo immobiliare, a differenza dei progetti odierni, in cui tale approccio, pur esistente e significativo, è mitigato da iniziative di natura sociale e culturale.
Le tempistiche di un progetto di rigenerazione
Per quanto rinnovati gli intenti, tuttavia, anche i progetti di oggi non tengono conto di alcuni elementi che, in un’azione di pianificazione pluriennale, dovrebbero tuttavia essere tenuti in considerazione.
Il primo è il tempo. Ogni progetto richiede tempo. Richiede un tempo per essere elaborato. Un tempo per essere finanziato. Un tempo per essere approvato ed un tempo per essere realizzato. Il nostro Paese non è propriamente noto per la rapidità di intervento. Un rapporto pubblicato qualche anno fa dall’Agenzia per la Coesione mostrava i tempi medi di realizzazione delle opere pubbliche per classe di investimento.
Ebbene, il rapporto mostrava come il tempo necessario a realizzare tali opere variasse da un minimo di poco più di due anni per progetti dal valore inferiore ai 100.000 euro, fino ai quasi 16 anni necessari per la realizzazione di progetti con importo superiore ai 100 milioni di euro. Interessante, in questo contesto, la distribuzione del tempo totale per interventi tutto sommato piccoli, compresi tra i 500.000 euro e il milione. Per questa categoria di progetti, il documento riportava un tempo medio di progettazione pari a 2,7 anni; un tempo di affidamento (bando e assegnazione), pari a 0,7 anni, e un tempo di realizzazione pari a 1,6 anni.
Questo tempo va tenuto in considerazione. Perché un intervento che richiede circa 6 anni per essere realizzato deve tener conto dei cambiamenti che si potranno affermare in tale periodo di tempo.
“Bisogna creare maggior valore. Altrimenti, togliamo spazio a qualcuno che dopo di noi potrebbe davvero fare la differenza”
Rigenerazione e tempo di adesione
Ma c’è anche un altro tempo che va preso in considerazione, ed è forse il tempo più importante per ogni tipologia di “progettualità” e che potremmo definire come il tempo dell’adesione.
Concettualmente, è il tempo che separa il momento in cui terminano i lavori dal momento in cui il risultato ottenuto inizia a generare benefici. Praticamente, è il tempo che separa la costruzione di una piazza dal momento in cui quella piazza diviene punto di ritrovo abituale per i cittadini. Questo tempo è così importante perché è assoggettato a regole del gioco completamente differenti da quelle che invece normano le precedenti fasi di progettazione – attribuzione – realizzazione. Si pensi, ad esempio, all’apertura di un negozio. Dopo aver maturato l’idea di aprire un esercizio di prossimità, l’imprenditore trascorre tempo nella progettazione delle attività, poi nell’identificazione del locale, nell’elaborazione di un progetto di riallestimento del locale e infine all’apertura del negozio (acquisto merce, ecc.).
L’inaugurazione, però, non rappresenta il momento in cui il negozio inizia a generare guadagni. Nel frattempo, l’imprenditore deve continuare a sostenere costi, a lavorare, a pagare le utenze, gli eventuali dipendenti, al fine di raggiungere un numero di clienti e un volume di fatturato che gli consenta di ripagare un po’ alla volta non solo i costi ordinari, ma anche gli investimenti che ha dovuto sostenere per aprire il negozio.
Si tratta del momento più difficile: investi i tuoi risparmi, contrai debiti con gli istituti di credito, metti a disposizione del pubblico la tura professionalità, il tuo sorriso migliore, e intanto aspetti che le persone entrino nel tuo negozio. E ci sono giorni in cui trascorri tutto il tempo da solo con i dipendenti.
In quei momenti, l’imprenditore si accorge che i ricavi devono pagare tutti i dipendenti, la merce, e le spese di gestione. Ma devono anche ripagare gli investimenti realizzati per aprire il negozio. E lo devono fare in misura tale da superare i ricavi che l’imprenditore avrebbe potuto ottenere lavorando come dipendente in un altro esercizio di prossimità.
Lo stesso identico discorso dovrebbe essere condotto anche quando al centro dell’intervento non c’è assolutamente un obiettivo di lucro, ma soltanto un obiettivo di incremento della qualità della vita dei cittadini. Si investono risorse, tempo. Si realizza finalmente uno spazio. Ma da quel momento in poi occorre mantenere quello spazio vivo. Lottare perché quello spazio agisca da attrattore per la cittadinanza. Fornire, ai cittadini, un beneficio reale. Un beneficio tale da ripagare, seppur in forma non monetaria, i costi necessari al mantenimento di quello spazio, i costi che sono stati sostenuti per la sua realizzazione, e che sia superiore alla quantità di “benefici” che i cittadini avrebbero percepito con un altro progetto.
Quando la rigenerazione vale la pena?
Queste considerazioni ci portano ad un altro punto che spesso viene del tutto tralasciato: vale la pena rigenerare? Vale la pena investire oggi risorse e tempo per realizzare degli interventi?
Sono pochissime le riflessioni su questo punto. Pochissime volte si è sentito dire che mantenere uno spazio inutilizzato potesse essere un’opportunità futura. Molti spazi sono così nati senza alcun tipo di riflessione al negativo. Sono state realizzate le solite soluzioni, sono stati implementati i soliti centri di formazione, e sono state investite le solite risorse europee o nazionali.
Abbiamo visto edifici aprire e chiudere. Abbiamo visto interventi posticci. Abbiamo visto periferie rifatte al botox il cui reale impatto è stato semplicemente di dislocazione, con la creazione di nuove periferie, ma sempre più distanti dal centro urbano.
Abbiamo visto anche interventi molto ben riusciti. Spazi urbani rivivere. Abbiamo visto nuove parti di città fiorire, crescere, divenire centrali. In tutti questi casi, la differenza è stata sempre e soltanto una: la capacità di fare in modo che quello spazio fosse vissuto. Perché altrimenti costruiamo soltanto rovine.
Ciò significa che bisogna rassegnarsi? Assolutamente no. Bisogna sviluppare strategie oneste, che non si limitino alla sola fase realizzativa, ma che tengano conto dell’insieme di rischi e di opportunità che caratterizzeranno la nuova vita di un determinato spazio.
Che lo si faccia per lucro, per diletto, per vocazione, o che lo si faccia per la volontà di incrementare la qualità della vita delle persone, il discorso è sempre lo stesso. Bisogna creare maggior valore. Altrimenti, togliamo spazio a qualcuno che dopo di noi potrebbe davvero fare la differenza.
Stefano Monti
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