Architettura e responsabilità sociale. Intervista a David Chipperfield
Insignito del prestigioso Pritzker Prize nel 2023, l’architetto inglese è riconosciuto come uno dei maggiori progettisti internazionali. Lo abbiamo intervistato all’interno delle Procuratie Vecchie di Venezia, da poco restaurate proprio dal suo studio
Entrare nelle Procuratie Vecchie in Piazza San Marco a Venezia significa mettere piede in un edificio che per tutti i suoi cinque secoli storia (a partire dalla costruzione nei primi decenni del Cinquecento per mano di Guglielmo dei Grigi, Bartolomeo Bon il Giovane e Jacopo Sansovino) era precluso all’accesso pubblico. Nel 2022, per la prima volta, gli spazi delle Procuratie Vecchie sono diventati visitabili grazie all’intervento di restauro firmato David Chipperfield Architects, studio di architettura fondato da sir David Alan Chipperfield (Londra, 1953). Al terzo piano dell’edificio che un tempo ospitava i procuratori della Serenissima, ha sede The Human Safety Net, fondazione sociale della compagnia di assicurazioni Generali, rendendo le Procuratie un luogo di aggregazione e sviluppo umanitario e culturale.
David Chipperfield, insignito del prestigioso Pritzker Prize nel 2023, ha collezionato negli anni una serie di autorevoli commissioni da parte di istituzioni culturali, tradottesi in progetti, e quindi edifici, di livello altrettanto elevato: tra gli altri, il Neues Museum di Berlino, la Turner Contemporary a Margate, la Kunsthaus di Zurigo, il Museo Jumex a Città del Messico e il West Bund Museum di Shanghai.
Intervista all’architetto David Chipperfield
Ci si riferisce spesso al suo lavoro associandolo al termine “classico”. Cosa significa questa parola per lei?
Credo che, da un punto di vista letterale, indichi una connessione con l’antica architettura. In un senso più ampio, potrebbe voler dire che non sono tanto la forma o le caratteristiche decorative a interessare, quanto qualità che siano stabili nel tempo. In alcuni progetti, specialmente in Germania, ci sono riferimenti classici più o meno evidenti. Sto parlando, per esempio, del Museum of Modern Literature o della James Simon Gallery a Berlino, due edifici in cui abbiamo adottato un’architettura che potremmo definire “colonnata”.
Viviamo in tempi difficili, tra disuguaglianze sociali, cambiamento climatico, nuove guerre in Europa e in Medio Oriente. In tutto il mondo diversi studi di architettura stanno cercando di cambiare lo status quo, per esempio supportando nuove tipologie di processi di partecipazione e collaborazione. Come immagina il futuro della professione dell’architetto?
Non c’è dubbio che l’architettura sia diventata più impegnata: abbiamo dovuto diventare più coinvolti nella pianificazione e nel prendere decisioni riguardo dove e come costruiamo. Motivo per cui dobbiamo iniziare a pensare a modi di operare che escano dai binari degli studi di architettura convenzionali. Con questo non dico che questi ultimi scompariranno: avremo ancora bisogno di una pratica architettonica canonica per costruire edifici tradizionali, ma credo che parte della professione debba diventare più coinvolta nella pianificazione, o almeno debba trovare nuovi modi per sostituire o restaurare edifici che già esistono.
Undici anni fa ha diretto la Biennale di Architettura di Venezia, scegliendo “Common ground” come tema. Se ricevesse lo stesso incarico oggi, quale tema sceglierebbe e perché?
Sceglierei lo stesso che ho scelto nel 2011. Credo che sia un argomento ancora attuale: il cambiamento climatico e i suoi effetti stanno colpendo duramente lo spazio comune, ed è la stessa cosa che pensavo undici anni fa. Come professionisti, dobbiamo pensare alla responsabilità collettiva nei confronti della società, piuttosto che promuoverci come individui. So che può sembrare strano o contradditorio detto da qualcuno che ha appena vinto il Pritzker Prize, che convenzionalmente è un’elevazione di un singolo.
Che ruolo interpretiamo in quanto architetti verso la società? In che modo la nostra responsabilità collettiva si oppone al talento individuale? Queste sono le domande che dobbiamo porci e a cui siamo sempre più chiamati a rispondere.
David Chipperfield, l’Italia e le Procuratie Vecchie
In che modo definirebbe la sua relazione con l’Italia?
L’Italia è stata senza dubbio l’inizio della mia carriera e ha permesso al mio studio di raggiungere un livello superiore in termini di progettazione: è un grandioso punto di riferimento, dalla prospettiva dell’ispirazione, specialmente per il lavoro degli architetti del dopoguerra. Sia quando ero studente e giovane architetto, sia oggi, l’Italia conserva una statura incredibile nella cultura e nella discussione architettonica, anche grazie a magazine di spessore come Domus e Casabella. Sfortunatamente, questo non si associa necessariamente a una pratica equivalente: paradossalmente, l’Italia è la patria dell’architettura contemporanea, anche se ciò non si riflette nell’attività di costruzione.
Le Procuratie Vecchie, dove ci troviamo ora, sono state a lungo un simbolo di potere politico durante la Repubblica di Venezia. Nel 2023, grazie all’intervento del suo studio, sono state aperte al pubblico per la prima volta nella loro storia come centro per la diffusione della cultura. Qual è, dal suo punto di vista, la relazione tra potere e cultura e come l’architettura si posiziona in questa relazione?
In quanto architetti, necessitiamo del potere e della vicinanza ad esso, che si tratti di potere commerciale o politico. Non ne possiamo fare a meno, salvo essendo davvero molto ricchi. Nello stabilire questa relazione, talvolta perdiamo la nostra prospettiva. Abbiamo bisogno di essere vicini al potere e tuttavia indipendenti ad esso: è una negoziazione complessa, che talvolta ha come risultato il fatto che molti architetti perdono proprio l’abilità di lavorare in modo indipendente.
Le Procuratie Vecchie di Venezia sono solo uno dei suoi progetti per spazi culturali all’interno di edifici preesistenti. Sulla base della sua esperienza dalla Kunsthaus di Zurigo alla James Simon Gallery di Berlino, fino al Museo Archeologico di Atene tuttora in costruzione, quali sono le sfide ricorrenti nel progettare spazi culturali oggi?
Una domanda molto complessa. Chiaramente nessuno sottostima l’importanza delle infrastrutture culturali: sono progetti condivisi, non si ha bisogno di convincere le persone della necessità di costruire musei o teatri. Questo non significa che siano più facili da realizzare. Credo che la maggiore sfida sia proprio affrontare la quota di responsabilità (sociale e istituzionale) che questo tipo di progetti portano con sé.
In tante occasioni ci siamo relazionati, come studio, con infrastrutture già esistenti: il punto non è sostituirli, ma valorizzarli, chiedendosi in che modo si possa migliorare l’edificio o l’istituzione in questione. Credo che per tanti anni i musei siano stati (e in certi casi lo siano tuttora) troppo preoccupati a usare l’architettura come un brand, e non credo sia qualcosa che possiamo ancora definire appropriato.
Alberto Villa
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