Futuro Antico: arte e architettura per costruire il domani. Intervista ai Labics
Spazio pubblico, ambiente ed equità sociale. Tre desideri per un costruire un nuovo sentire comune espressi dallo studio di architettura Labics
Impegnati nella realizzazione dell’Arena del Colosseo, lo studio di architettura Labics ha realizzato negli ultimi anni diversi edifici di carattere museale, come l’ampliamento del Palazzo dei Diamanti a Ferrara e la Fondazione Mast a Bologna. Intervistati per Futuro Antico, Maria Claudia Clemente e Francesco Isidori, che hanno fondato nel 2002 Labics a Roma, credono nella necessità di costruire un sentire comune, lavorare per una maggiore equità sociale, riscoprire la bellezza e l’importanza della natura, per un’architettura sostenibile e rispettosa dell’ambiente.
Quali sono i vostri riferimenti ispirazionali nell’arte?
Nel corso del tempo e con pazienza – Labics è stato fondato ormai più di 20 anni fa – abbiamo costruito una costellazione di riferimenti, un modo immaginario costituito da testi, disegni, fotografie, film, opere d’arte, che nutre costantemente i nostri progetti e a sua volta è nutrito e alimentato dalle nostre curiosità; è un mondo in continua evoluzione ma che gravita intorno ad alcune ossessioni ricorrenti; veri e propri nuclei intorno ai quali ruotano cose anche molto diverse tra loro accomunati dal concetto ampio e polisemantico di Struttura. Pensiamo alle ricerche sulle strutture geometriche da Matila Ghyka a Le Corbusier, da Palladio e Piero della Francesca, da Mondrian a Rietveld; pensiamo alle strutture spaziali, da Sol LeWitt a Pierluigi Nervi, da Richard Serra a Mendes da Rocha; o ancora alle strutture aperte di Escher e Robert Smithson.
Qual è il filo conduttore che lega queste ricerche?
Vi è qualcosa in realtà che soggiace a tutto questo mondo e che tiene tutto insieme: è la ricerca della dimensione pubblica della forma, così come aveva felicemente intuito Rosalind Krauss quando descriveva il carattere peculiare dei minimalisti americani negli anni ’60. Del resto, è così che è nato il nostro interesse per il concetto di struttura, ovvero dall’esigenza di comprendere i processi formativi del progetto e definirne i limiti, per capire come e con quali strumenti sfuggire l’arbitrio di un approccio basato solo sull’istinto per cercare dei princìpi in grado di rendere ogni scelta del progetto necessaria, in grado di dare alla forma una base logica che la rendesse chiara nelle motivazioni, comprensibile nel risultato e quindi condivisibile.
Qual è il progetto che vi rappresenta di più? Potete raccontarci la sua genesi?
Non ve ne è uno solo; ci sono certamente alcuni progetti più rappresentativi di altri, quali ad esempio, il Mast a Bologna, la Città del Sole a Roma, la piazza Fontana a Rozzano, il Palazzo dei Diamanti a Ferrara o il recentissimo Campus Bio-Medico di Roma. L’importanza non discende dalla dimensione ma dalla coerenza e dall’esattezza tra gli assunti teorici di partenza e la forma finale, coerenza che non sempre è facile da raggiungere. A proposito di strutture, un progetto al quale siamo particolarmente affezionati non è un edificio ma una ricerca condotta in occasione dell’invito ad una mostra personale presso lo Studio Stefania Miscetti a Roma. Il lavoro si chiama Structures, ed è u progetto di ricerca che si è concretizzata in 50 piccoli plastici che oggi fanno parte della collezione del Maxxi.
Spiegateci meglio…
Nel loro insieme i modelli costituiscono un paesaggio in cui si indaga in modo iterato il rapporto tra struttura e spazio; un paesaggio in cui l’architettura non è descritta o prefigurata, in modo allusivo o analogico, come avviene nel disegno, ma è simulata in modo immanente: i modelli sono essi stessi architettura. Infine, un ultimo lavoro che certamente oggi ci rappresenta in modo significativo perché sintetizza tutta la nostra ricerca sul progetto, è The Architecture of Public Space, un saggio da poco pubblicato da Park Books. Il libro nasce dal desiderio di capire il ruolo dell’architettura nella costruzione della dimensione pubblica della città, della forma dei suoi spazi e quindi della sua qualità.
Che importanza ha il Genius Loci all’interno del vostro lavoro?
Non pensiamo mai di lavorare in una tabula rasa né teorica né fisica; l’architettura trasforma i luoghi e crea a sua volta luoghi; progettare e costruire è una costante operazione di riscrittura, di trasformazione di una condizione preesistente, sia che si tratti di un paesaggio naturale, sia di un ambiente costruito. Per questo è sempre necessario conoscere bene il luogo, studiarlo, sentirlo, visitarlo fisicamente; per costruire con esso un dialogo e un confronto.
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro? Credete che il futuro possa avere un cuore antico?
Il futuro non solo può ma, secondo noi, deve avere un cuore antico; questo punto è al centro del nostro lavoro e del nostro pensiero, basti pensare appunto alla ricerca sottesa al libro The Architecture of Public Space che è il risultato di una ricerca che studia le architetture del passato italiane per mettere a fuoco delle possibili strategie progettuali per il futuro. Non crediamo tanto all’innovazione che azzera il passato quanto a quella che riscrive e se necessaria ruba dal passato, che lo reinventa per continuare a scrivere la storia sulla storia, il pensiero sui pensieri che ci hanno preceduto; crediamo che queste siano le innovazioni vere, quelle che restano nel tempo. Del resto, Piero della Francesca non sarebbe esistito senza Beato Angelico, Mies van de Rohe senza Karl Friedrich Shinkel; questo mondo di riferimenti vale anche in ambiti non strettamente disciplinari: pensiamo, ad esempio, al rapporto di Alighiero Boetti con l’antica arte della tessitura, o alla fascinazione di Le Corbusier per l’architettura vernacolare del Mediterraneo. L’arte e l’architettura di oggi sono il frutto di una storia millenaria.
Quali consigli dareste ad un giovane che voglia intraprendere la vostra strada?
Studiare tanto, girare il mondo, visitare le architetture dal vivo e non solo su Instagram, esercitare lo sguardo prima ancora della mano; poi essere forti e saldi nel cercare il proprio punto di vista, nel perseguire la propria ossessione. L’architettura è bellissima ma ha anche una sua durezza nel confronto con la realtà per la quale è necessaria molta forza.
In un’epoca definita della post-verità, ha ancora importanza e forza il concetto di sacro?
Sì, moltissimo, ma evidentemente con un significato differente rispetto a quello che aveva nell’età delle grandi narrazioni. Il sacro inteso non come ricerca della verità ma come tensione verso una dimensione che travalica l’aspetto concreto e materiale della vita. Soprattutto in questo momento storico, dove tutto sembra essere guidato da interessi economici, bisogna tornare a coltivare il mistero del sacro che circonda la vita ed ogni atto creativo.
Come immaginate il futuro? Sapreste darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Purtroppo, temiamo che le idee che guideranno i prossimi anni non saranno quelle che auspichiamo. Oggi più che in passato sono gli interessi economici, gli interessi di parte e di potere a guidare le scelte – anche per il futuro – delle istituzioni e dei governi nazionali. Dunque, più che una previsione sul futuro, possiamo esprimere alcuni desideri; le idee che vorremmo ci guidassero.La prima riguarda una rinnovata consapevolezza per la fragilità del sistema pianeta. Idea che deve partire dalla riscoperta della bellezza dell’ambiente naturale nella sua totalità e dell’imperativo ineludibile della sua tutela. La seconda la necessità di una maggiore equità sociale. Le disparità tra nazioni ricche e povere e, all’interno della stessa nazione, tra persone abbienti e indigenti, anziché attenuarsi continua ad aumentare. La terza, la necessità di tornare a costruire un sentire comune, attraverso la costruzione di spazi pubblici e condivisi, dove si possa realizzare compiutamente quell’idea di comunità che è alla base della vita sociale. Crediamo che sia l’arte che l’architettura possano contribuire molto a tutti e tre questi aspetti.
Ludovico Pratesi
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