Architettura e paesaggio nelle scenografie dei film di Alice Rohrwacher
Tramite una cifra narrativa personalissima, Rohrwacher riesce a trasmettere al pubblico storie, personaggi e sentimenti legati a situazioni marginali, senza tuttavia scadere in dolciastri paternalismi. Merito, anche, di un preciso modo di concepire le scenografie
Alice Rohrwacher è tra le registe più promettenti del panorama cinematografico contemporaneo, tanto italiano quanto internazionale. Nata nel fiesolano nel 1981 da mamma italiana e papà tedesco, si trasferisce sin dall’infanzia con la famiglia nelle campagne ternane. È in Umbria che entra in contatto con il contesto agreste e, senza accezioni di demerito, provinciale centro – italiano: scenari, situazioni, sentimenti popolari che influenzano la sua poetica e tornano in tutte le sue pellicole cinematografiche. Attraverso le sue esperienze biografiche, la sua poetica – della quale parleremo a breve – e con mirate scelte scenografiche, la cineasta riesce a narrare in maniera limpida, e priva di giudizio, contesti ai margini, tanto per motivi sociali quanto per “collocazione geografica”. Contesti Fuori Roma, volendo citare un vecchio programma trasmesso su Rai Tre.
Il cinema secondo Alice Rohrwacher
Dunque, a cosa si deve questa sua maestria nel riuscire a collocarsi come narratrice non scientificamente distaccata ma, comunque, “fuori dalla pellicola” e assente nel giudizio soggettivo? Sicuramente la sua cifra narrativa, dal carattere fiabesco e a tratti onirico, ormai diventata identitaria e riconoscibile, consente di raccontare scenari “privi di patina” senza insinuare nello spettatore un sentimento paternale. Permette, in altre parole, di osservare la scena nella sua poetica, aulica o dimessa che sia; non mi soffermerò oltre su ciò, lascio a chi di settore il compito. Le puntuali ambientazioni, osservate anch’esse con la lente naïf tipica della regista, contribuiscono all’auspicata “assenza di giudizio” nello spettatore, appena citata. Edulcorate dalle eteree atmosfere, le ambientazioni sono chiamate a svolgere esclusivamente la funzione per le quali esistono, ossia definire scene, situazioni e personaggi che si muovono in esse.
Le scenografie nei film di Alice Rohrwacher
Partendo dagli esordi per concludere con l’ultimo film presentato a Cannes, analizzeremo alcune delle scenografie più significative per dimostrare quanto già detto. Marta, in Corpo Celeste (Italia, Svizzera, Francia, 2011), è una ragazza di tredici anni che dalla Svizzera torna a Reggio Calabria, terra d’origine, rispetto la quale però si sente estranea, aliena. Interessante è la scelta della chiesa nella quale la tredicenne si prepara per la cresima: l’edificio è una tipica architettura ecclesiastica dagli infissi anodizzati, con un’aula dal colore plumbeo – per gli intonachi bianchi e i pavimenti fuliggine – e arredi Anni Ottanta; ruba la scena un brillante crocifisso di neon blu. Tutto ciò non viene trasmesso dal narratore come qualcosa di umile e dimesso, ma come un’atmosfera levitante quasi, appunto aliena, amplificata dalla presenza del crocifisso tipico di quel gusto futuristico, caratterizzante la decade di appartenenza. Ne Le Meraviglie (Italia, Svizzera, Germania, 2014) il casale, nelle campagne umbre, della famiglia protagonista sottolinea la differenza tra l’estranea e “isolata” famiglia, e i cittadini del piccolo comune di appartenenza. Il primo, estremamente modesto e – in parte – abbandonato, si discosta dalle rassicuranti, seppur semplici, case dei cittadini del borgo, dalle strutture in cemento armato a vista alternate da pareti di mattoni tufacei: in ognuno dei due casi, comunque, il messaggio che la scenografia trasmette è quella della diversa condotta di vita quotidiana tra la famiglia atipica per un chiuso e protettivo piccolo comune del Centro Italia e gli abitanti di quest’ultimo, affaccendati per l’evento paesano con ospite una famosa soubrette locale: l’umbra Monica Bellucci.
Il ruolo dell’architettura in Lazzaro Felice e ne La Chimera
Le architetture in Lazzaro Felice (Italia, Svizzera, Francia, Germania, 2018) e La Chimera (Italia, Francia, Svizzera, 2023) presentano stesse tipologie e finalità. Le decadenti e affascinanti ville presenti in ciascuno dei due film, identificano e delineano le personalità, e i ruoli (antagonista in uno, figura ausiliaria nell’altro) delle rispettive proprietarie: in Lazzaro Felice, la Marchesa Alfonsina De Luna (Nicoletta Braschi) vive in un lugubre villino liberty, stile che – quasi in modo archetipo – viene ricollegato a un immaginario alto borghese e, memori del cinema Anni Settanta di Dario Argento, incute insicurezza e mistero con le vetrate traslucide dalle tinte violacee. Ne La Chimera la villa diventa l’allegoria della proprietaria, Flora (Isabella Rossellini): anziana insegnante di canto non più nel pieno delle forze, che però non ha perso l’eleganza di un tempo. L’architettura che la ospita trasmette sì incertezza, ma anche tranquillità e sicurezza, non a caso è il luogo dove il protagonista Arthur (Josh O’Connor) si rifugia. È dunque possibile affermare come, oltre alla già citata cifra estetica autoriale, le scelte scenografiche, finalizzate alla descrizione oggettiva del singolo personaggio, atmosfera o situazione sociale, contribuiscano a distaccare la narrazione di Alice Rohrwacher dalla dimensione paternale. La stessa che mal consente di godere, in maniera assoluta, della poetica dei contesti “privi di patina”.
Si ringrazia gentilmente la casa di produzione Tempesta di Roma per il materiale fotografico messo a disposizione per questo articolo.
Giovanni Manfolini
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