Roma 2050. 4 strade per costruire parità di genere con l’architettura
In quale modo gli strumenti dell’architettura possono mettere in crisi e demolire la tradizione culturale che ha impedito la parità di genere? Al primo evento pubblico del Laboratorio Roma 050, l’architetta Maria Luisa Palumbo ha indicato 4 vie
Punto indispensabile per ragionare su come costruire parità di genere nella Roma che verrà, così come in molte altre città europee – per rimanere e mettere in questione innanzitutto questa zona del mondo –, è riconoscere le radici storiche, profonde, lontane e potenti, del problema. È nella nostra Europa infatti che per millenni si è teorizzata e affermata, nei testi, nelle leggi e nelle pratiche della vita familiare e quotidiana, l’inferiorità e la riduzione a cose delle donne. A sostenerla i grandi pensatori della tradizione occidentale, da Aristotele ad Hegel, gli ordinamenti giuridici più sofisticati, come quello italiano in cui, sino al 1996 (ebbene sì!), lo stupro non era un reato contro la persona. È questa tradizione culturale, passata attraverso generazioni di studenti formati quasi esclusivamente su autori, voci, e modelli maschili (nell’apprendimento della storia, della filosofia, della letteratura, dell’arte), che rende “trasparente” — cioè invisibile e dunque non sconcertante o allarmante — la presenza di sfilze di uomini al comando, in tavole rotonde o ai vertici di istituzioni ed eventi. È questa tradizione culturale, che con una associazione terribile ma necessaria voglio chiamare “cultura dello stupro”, che dobbiamo mettere in crisi e demolire, se vogliamo davvero costruire parità. Come farlo, cosa e come demolire e ricostruire, attraverso gli strumenti dell’architettura e del progetto della città? Proverò a dare quattro indicazioni di fondo ed un esempio concreto.
De-costruire il paradigma capitalistico, euro-centrico, e maschio-centrico
La prima via riguarda le domande alla base del progetto. Poiché lavorare per la parità di genere significa pensare il progetto come uno strumento per creare o favorire nuove condizioni di giustizia sociale, cioè come uno strumento di liberazione, occorre innanzitutto e sempre, cioè al di là del tema o occasione specifica di progetto, chiedersi: chi e in che modo beneficerà di questo progetto? In che modo aiuterà a costruire parità? In che modo includerà o supporterà la vita, il movimento, l’accesso, l’uso, di chi è stato per millenni escluso? Queste domande esplicitano qualcosa che è emerso chiaramente negli ultimi, importanti, 25 anni di lotte, a partire almeno dal Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre (2001) e poi nei movimenti delle primavere arabe, Occupy, Black Lives Matter, e Me too. Il riferimento è alla radice comune e alle intersezioni tra le lotte per la giustizia ambientale, sociale e di genere, e la necessità di de-costruire il paradigma capitalistico, euro-centrico, e maschio-centrico. Da architetti siamo poco abituati a pensare l’architettura e la città come espressione di forze sociali contrastanti e se lo facciamo, soprattutto in Italia, lo facciamo ancora esclusivamente da un’angolazione anticapitalistica, basata sulla critica tafuriana. Proprio quella critica, però, aveva completamente oscurato le molte altre forme e forze d’oppressione su cui il capitale è stato costruito, rendendo così possibile a Tafuri parlare per esempio del piano di Le Corbusier per Algeri come di un progetto liberatorio, quando le sue implicazioni coloniali sono evidenti.
Ripensare la capacità di accoglienza abitativa di Roma
La seconda indicazione riguarda lo spazio privato dell’accoglienza abitativa. In che modo una visione per Roma 2050 mette in campo delle politiche dell’accoglienza finalizzate a dare la priorità a chi è storicamente più debole (dal punto di vista delle opportunità lavorative, pay gap e così via)? In un progetto per una Roma futura che costruisca parità di genere occorre spingere la riflessione sulla capacità di accoglienza abitativa della città, in termini quantitativi ma anche di capacità di innovazione rispetto al modello della casa-famiglia nucleare borghese, per far spazio a nuove forme di famiglia. Favorire nuove pratiche di accudimento e di genitorialità condivisa è essenziale infatti per cambiare la condizione di solitudine nell’accudimento (di bambini, malati e anziani), che continua a pesare fondamentalmente sulle donne. Naturalmente, ancora una volta il tema dell’accoglienza abitativa è trasversale: non riguarda cioè esclusivamente le donne ma chi, per ragioni che vanno molto al di là della sua storia individuale, si trova a vivere in condizioni di fragilità e di esclusione.
Rivoluzionare lo spazio pubblico
La terza indicazione riguarda lo spazio pubblico. Una Roma futura capace di costruire parità deve cambiare radicalmente le priorità nello spazio pubblico. Alla assoluta priorità della mobilità privata e individuale va sostituita la priorità dei mezzi pubblici e della pedonalità. Dal punto di vista progettuale, questo vuol dire una rivoluzione in termini di superfici: occorre rendere discontinuo lo spazio delle macchine e continuo lo spazio dei pedoni, delle rotelle, delle stampelle, oltre che lo spazio della mobilità pubblica. Ma lo spazio pubblico, oltre a spazio della mobilità, è anche spazio dell’incontro, della socialità, del gioco: Roma deve scoprire che anche i ragazzi e gli adulti possono giocare. La città dovrebbe offrire playground, aperti e pubblici, non soltanto per gli skateters, ma per pallavolo, pallacanestro, tennis. Questi spazi sono importanti come luoghi di aggregazione e attivazione dello spazio collettivo, come spazi cioè di integrazione e di incontro.
Porre fine all’esclusione delle donne dallo spazio e dalla storia collettiva
La quarta indicazione riguarda la città come luogo della memoria collettiva. Proprio questa dimensione simbolica dello spazio pubblico offre un’altra possibilità chiave per costruire parità, cioè per cercare di ribilanciare una situazione gravemente distorta, in cui le bambine e le donne nascono e crescono abituandosi a ritenere normale che i nomi delle strade che attraversano, così come i monumenti che incontrano, rappresentino e celebrino esclusivamente grandi uomini, condottieri, pensatori, artisti, o padri della patria. Abbiamo veramente bisogno di nuovi monumenti? La risposta è no, non abbiamo bisogno di monumenti, ma abbiamo bisogno di costruire parità e questo si fa anche ponendo il problema del chi e perché viene celebrato nello spazio pubblico. Si fa, cioè, attraverso la ricerca continua di dispositivi che cancellino quella cultura che ha reso trasparente l’esclusione delle donne dallo spazio e dalla storia collettiva. La costruzione di nuove forme di monumenti o memoriali può dunque diventare un’occasione per innescare discussioni, nelle scuole e nelle comunità territoriali a tutti i livelli, su questo tema.
La questione del Foro Italico e della propaganda fascista
Per concludere, un’azione possibile, troppo a lungo incomprensibilmente rimandata, per costruire una Roma più giusta, paritaria e democratica, riguarda la memoria patriarcale, coloniale e fascista ancor oggi celebrata in uno degli spazi pubblici se non più vitali certamente più attraversati della città: il Foro Italico. Qui, come ha scritto lo storico Alessandro Portelli, chi frequenta lo stadio Olimpico oltre allo spettacolo delle partite riceve ogni settimana una lezione di propaganda fascista. Si entra allo stadio, infatti, passando accanto all’obelisco che inneggia a Mussolini Dux e si prosegue attraversando una piazza i cui mosaici celebrano ulteriormente il Duce e la violenza fascista, con motti ripresi dai tifosi (“Molti nemici molto onore”), e le conquiste dell’impero. Grandi lastre verticali di travertino ai due lati della piazza (che in questo momento l’amministrazione sta ripulendo e riportando all’originario splendore) raccontano infatti l’inizio dell’impero con la guerra d’Etiopia, la presa di Adua, l’occupazione di Addis Abeba.
La necessità di intervenire su questo sistema simbolico monumentale, non demolendo ma cancellando, sovrascrivendo o aggiungendo nuove e diverse scritte nelle lastre lasciate vuote, è stata più volte sollevata in passato ma lasciando alla fine prevalere un puro principio di conservazione. Il principio della conservazione non ha impedito però di costruire una grande e pesante cancellata (di chiusura e accesso allo stadio Olimpico) proprio tra l’obelisco e la piazza. Questa mancanza di un segno chiaro e netto di rottura con il passato, fascista, coloniale e patriarcale è un simbolo della difficoltà di Roma e dell’Italia intera di rinnegare la cultura dello stupro per affermare una nuova cultura della parità. Agire su questo spazio pubblico non sarebbe certo sufficiente in sé, ma sarebbe, attraverso la discussione che questo intervento implicherebbe, un passo importante in una direzione di cambiamento.
Questo intervento è stato presentato in occasione del panel “Infrastrutture sociali e parità di genere” che si è svolto nell’ambito di “Tre viste su Roma: sopra, attraverso, sotto”, l’evento promosso dal Laboratorio Roma_050 diretto da Stefano Boeri.
Marialuisa Palumbo
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