Cosa c’entra la questione palestinese con la storia dell’architettura?
Il conflitto in corso a Gaza continua ad alimentare le proteste studentesche nel mondo. L’architetta turca-americana Esra Akcan racconta come la crisi in corso si stia riflettendo nella sua pratica didattica e offre spunti di riflessione del rapporto tra spazio e potere
Mentre a Gaza Israele prosegue il suo attacco su Rafah con conseguenze sempre più devastanti, va avanti la conversazione sugli accampamenti e sulle proteste studentesche contro la guerra e a sostegno della Palestina. A prendere la parola è Esra Akcan, docente di teoria architettonica e direttrice dell’Institute for Comparative Modernities alla Cornell University. Akcan ha conseguito il suo dottorato e post-doc a Columbia e sta completando il suo nuovo libro intitolato Right-to-Heal: Architecture in Transitions After Conflicts and Disasters. Il suo lavoro esamina le storie intrecciate di Europa, Asia occidentale e Africa orientale, leggendo l’architettura attraverso nozioni di traducibilità, ospitalità, apertura, diritto alla giustizia e alla cura.
La ricercatrice Esra Akcan e le proteste universitarie per la Palestina
Andando oltre la critica al capitalismo di Tafuri, negli ultimi decenni l’attenzione della storia e della critica dell’architettura si è in gran parte spostata da quella che Hilde Heynen chiamava una “narrazione pastorale” della modernità, per sollevare domande sul ruolo dello spazio e dell’architettura nel perpetuare strutture di oppressione ed estrazione. Identifichi una correlazione tra la tua ricerca, il tuo insegnamento e la mobilitazione degli studenti?
Senza dubbio vedo il mio lavoro nel corso degli anni come un contributo al cambiamento che hai identificato. Per darti una risposta che combini ricerca e insegnamento, mi concentrerò sulla iniziativa Critically Now! a Cornell University, dove l’accampamento di solidarietà e le proteste continuano ancora. Critically Now! è una piattaforma guidata dai docenti che si attiva quando nel mondo si verificano eventi che influiscono sull’ambiente costruito, culturale e universitario, eventi che possono trarre beneficio dall’esperienza delle nostre discipline. Abbiamo lanciato il primo Critically Now! al dipartimento di architettura nella primavera del 2017 e abbiamo continuato per circa due anni fino al Covid. Abbiamo affrontato eventi come il travel ban imposto dagli Stati Uniti contro sette paesi (spesso chiamato Muslim ban), il razzismo contro gli immigrati, il declino dei diritti civili, i progetti infrastrutturali come il muro al confine tra Stati Uniti e Messico, e interventi statali sulle forme dell’architettura come l’ordine esecutivo [da parte del presidente Trump] di costruire tutti gli edifici statali in stile neoclassico. Il nostro obiettivo era discutere il ruolo dell’architettura e il suo potenziale critico riguardo a queste questioni. Il primo Critically Now! è coinciso anche con il cinquantesimo anniversario dei movimenti studenteschi del 1968, quindi abbiamo tenuto un panel su Global 1968 con i docenti di Cornell.
La questione palestinese e la storia dell’architettura
In quale modo questa iniziativa ha affrontato la questione palestinese e come questa è collegata alla storia dell’architettura?
Critically Now! ha riunito docenti e studenti nell’apprendimento e nella costruzione della conoscenza attraverso delle lezioni aperte e un panel. Con docenti di Cornell ed esperti invitati alle nostre lezioni da tutto il mondo, abbiamo considerato la guerra in Israele-Palestina come un prisma attraverso il quale esplorare questioni importanti a livello globale come le politiche razziali e religiose, l’antisemitismo e l’islamofobia, la storia del nation-building, l’apartheid, il colonialismo di popolamento, il genocidio, la costruzione della pace, l’immaginazione di una futura riparazione e altri argomenti. In una delle mie lezioni aperte, per esempio, abbiamo avuto come ospite Eyal Weizman, il fondatore di Forensic Architecture, e abbiamo affrontato la sua ricerca insieme a libri sul biopotere, sul necropotere e sull’attivismo abolizionista [per lo smantellamento del sistema poliziesco e carcerario statunitense], per discutere le nuove tecnologie architettoniche della sorveglianza come forme panottiche avanzate e come macchina da guerra, che possono essere impiegate anche per effetti sovversivi. Complessivamente, ho tenuto tre lezioni aperte nel mio seminario “Justice : History : Architecture” collegate ai libri che ho scritto o che sto scrivendo. Il seminario ha sottolineato l’importanza della conoscenza storica nell’affrontare le ingiustizie del presente, esplorando al contempo la storiografia architettonica dal punto di vista della giustizia
Ovvero?
Nel seminario ho fatto una distinzione tra diverse definizioni di giustizia, a volte concorrenti, cercando di rivelare la loro interconnessione. Le sessioni dunque sono state organizzate attorno a concetti come “giustizia globale” e “giustizia sociale, ambientale, e di genere,” giustizia di transizione (transitional justice), e poi giustizia razziale, disciplinare, rigenerativa (restorative) e riparativa (reparative). Il corso ha attraversato temi recenti della storia dell’architettura discutendoli dal punto di vista della giustizia, piuttosto che attraverso altre cornici come la politica dell’identità, l’Antropocene come presunta colpa umana, o il formalismo apolitico.
Giustizia, architettura, espropriazione e ingegneria demografica
Quindi, in un certo senso, ciò che in passato era quasi assente nella storiografia architettonica — la storia stessa dei luoghi e dei popoli — adesso viene in primo piano?
Una delle sessioni più strettamente legate al libro che sto scrivendo attualmente si chiamava Mass Displacement and Nation Building. Abbiamo esaminato l’impatto diffuso della migrazione forzata di massa durante la creazione dei moderni stati nazionali e discusso tre piani di spartizione imposti a livello internazionale nella prima metà del XX secolo. Questa sessione era correlata al tema di Critically Now! in modo storico, nel senso che guardava alla dissoluzione dell’Impero Ottomano, e al suo impatto su tutto il territorio, compresa la Palestina. Ho tenuto una conferenza sul mio prossimo libro Right to Heal in cui suggerisco il termine “nazionalismo di reinsediamento” (resettler nationalism) per fare i conti con i trasferimenti forzati di massa durante questo periodo.
Quante persone furono coinvolte?
Oltre sette milioni di persone furono sfollate e reinsediate con la forza durante la dissoluzione dell’impero, compreso lo Scambio di Popolazioni imposto dalla Società delle Nazioni nel 1923 tra greco-cristiani e turco-musulmani, che ora definisce il confine tra i paesi UE e quelli extra-UE. Questo trattato servì anche da modello per il Piano di spartizione della Palestina delle Nazioni Unite nel 1947, che causò la Nakba [“la catastrofe”: l’espulsione violenta dei palestinesi dalle loro case e terre]. Questo processo ha trasformato una terra multietnica e multireligiosa in diversi stati-nazione omogenei e definiti dal punto di vista etnico-religioso, attraverso un processo di ingegneria demografica, sulla base del presupposto dell’inevitabilità dello stato-nazione come norma internazionale. Oggi, cinque paesi post-ottomani hanno ancora un riconoscimento limitato presso le Nazioni Unite. Io sto scrivendo la storia dell’architettura dei popoli formati da questa ideologia nazionalista del reinsediamento, tracciando le esperienze e gli spazi di vita di coloro che furono soggetti a questa espropriazione, trasporto e reinsediamento, piuttosto che dei poteri che lo hanno imposto. La storia dell’architettura di questi popoli rivela, almeno, anche che la Partizione del 1923 fu una frattura tra i governanti e i popoli, e non una frattura tra le due comunità.
Andando oltre il passato, cosa possiamo dire riguardo al futuro?
Un’altra lezione aperta in questo seminario, anch’essa collegata al mio libro, riguardava l’immaginazione del futuro: si chiamava La costruzione della pace dopo l’apartheid e la violenza di Stato. Abbiamo esaminato il contributo del Sud del mondo alle discussioni e ai meccanismi che cercano di fare i conti con le violazioni e i crimini storici. Abbiamo discusso in particolare della relazione dell’architettura con i casi storici di apartheid e le sparizioni forzate che hanno dato vita a un concetto in evoluzione di giustizia di transizione, modellato sulle transizioni in Sud Africa, Argentina e Cile. Si tratta di una nuova sfera del diritto internazionale cresciuta negli anni 2010 e 2020, come un insieme di meccanismi che portano una società a confrontarsi con le ingiustizie del passato, ad assumersi la responsabilità dei crimini passati e a raggiungere la giustizia e la riconciliazione attraverso mezzi pacifici e transitori.
In che modo questo ambito si lega alla tua pratica?
La giustizia di transizione ha molte questioni irrisolte come diritto internazionale, ma io studio come ispira le piattaforme che cercano di cambiare uno status quo ingiusto in modi pacifici e non violenti. La giustizia di transizione, o il paradigma della Riparazioni in senso lato, vogliono costruire una visione olistica della giustizia e della costruzione della pace, con piattaforme e metodi come commissioni per la verità, processi per la verità [truth trials, procedimenti giudiziari adottati in Argentina senza condanne o punizioni penali], movimenti “mai più”, scuse da uno stato all’altro, riparazioni, risarcimenti, memoriali, riforme costituzionali e istituzionali. Quasi tutti questi aspetti della giustizia di transizione hanno controparti architettoniche. Io dunque discuto la relazione dell’architettura con il diritto alla verità studiando città ed edifici come documenti di violenza, e la relazione dell’architettura con il trauma e la guarigione attraverso la progettazione di memoriali e musei educativi.
Marialuisa Palumbo
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