“La terra non mi appartiene”. Intervista all’architetta del momento Lina Ghotmeh
“Costruiamo per le persone, non per noi stessi”, ricorda l’architetta di origini libanesi Lina Gothmeh. Dal museo di arte contemporanea di AlUla alla Stone Garden Tower di Beirut, in questa intervista illustra la sua peculiare visione progettuale e spiega il ruolo dell’architettura nella società
Lina Ghotmeh (Beirut, 1980) è una delle figure più interessanti sul palinsesto internazionale dell’architettura contemporanea. La sua lectio magistralis ha dato il via alla sesta edizione della Milano Arch Week, l’ormai tradizionale kermesse organizzata da Triennale Milano e dal Politecnico di Milano che quest’anno ha indagato l’idea di un’architettura “debole, in ascolto dei bisogni e delle aspettative dei cittadini e in dialogo con il territorio e i suoi abitanti”. Attualmente operativa da Parigi, nel suo intervento l’architetta ha illustrato al pubblico la filosofia che guida i suoi progetti: lei stessa la definisce “archeologia del futuro”, una sintesi tra progresso tecnologico e tradizione artigianale.
La storia e i progetti dell’architetta Lina Ghotmeh
Nel panorama odierno, Lina Ghotmeh si distingue per un pensiero sensibile: l’architettura nasce per dialogare e creare relazione e genera edifici che incarnano e sublimano il patrimonio culturale locale. Autrice di progetti premiati per la loro qualità progettuale e tecnica, come la nuova sede della Maison Hermès nel comune francese di Louviers (si tratta del primo edificio produttivo a basse emissioni di carbonio ed energeticamente positivo, N.d.R.) e il Serpentine Pavilion 2023 a Londra, Ghotmeh ha recentemente svelato il progetto per il padiglione del Bahrain per Expo 2025 Osaka. Immancabile, durante la sua lectio magistralis, un racconto il progetto della Stone Garden Tower a Beirut, edificio per appartamenti caratterizzato da una forma irregolare e da una forte componente materica realizzata da artigiani locali. È il suo “edificio-manifesto”, in cui la memoria radicata nel passato assume una nuova veste in un presente spesso caratterizzato da conflitti e distruzioni improvvise. Alla progettista è stata inoltre commissionata la progettazione del museo di arte contemporanea di AlUla, nell’area nord ovest dell’Arabia Saudita dove si ambisce a costituire un bacino culturale per le storie del Mediterraneo e dei suoi artisti. Come spiega nell’intervista, la sua visione si lega a un processo sperimentale, in cui l’architettura è un veicolo di messaggi inclusivi e sostenibili, in ascolto dell’umano e delle sue esigenze.
Intervista a Lina Ghotmeh
Definisce il suo approccio “archeologia del futuro”. Cosa intende?
Si tratta di un modo per sfuggire all’ossessione che abbiamo per il nuovo, lo scintillante, l’atto di costruire oggetti sgargianti ma incapaci di parlare di ciò che ci circonda. Sono architetture alienate anche dal concetto stesso di architettura intesa come garante di relazione tra le persone e l’ambiente. Perché, ricordiamolo, noi costruiamo per le persone, non per noi stessi. Mi capita che mi venga detto: “È bellissimo che tu stia lasciando una traccia”. Ma io non penso mai a lasciare la mia traccia personale, penso piuttosto di avere una responsabilità, la più grande responsabilità: l’architettura influenza il modo in cui il genere umano si relaziona all’altro, all’interno di una sua psicologia, di un suo ambiente. Per me ogni gesto in architettura parte dall’osservazione di quanto già esiste, per poi scavare più in profondità e far nascere un nuovo progetto. Un processo che metaforicamente è come uno scavo archeologico. Concepire in questo modo il presente mi permette di parlare e legarmi al passato. Ed è un seme, un punto di partenza per il futuro.
Pensa che oggi gli architetti abbiano più responsabilità o sfide?
Da sempre gli architetti hanno avuto una grande responsabilità nei confronti della società, perché sono veicoli di valori, economici, politici e sociali: la professione è costantemente immersa in queste dinamiche. La domanda da porsi è come l’architettura può prendere posizione, per dare una risposta che sia critica e permetta di farci progredire.
I progetti di Lina Ghotmeh tra Europa e Medio Oriente
Guardando ai suoi progetti e alla sua formazione, che affonda nell’archeologia, come definirebbe il suo rapporto con la memoria del luogo in cui progetta?
Con la memoria di un luogo ho un rapporto che ha a che fare con la sua comprensione: ciò avviene lasciandomi assorbire, aprendo i sensi. Beirut, dove sono cresciuta, è un luogo caldo, in primo luogo perché ci troviamo nel Mediterraneo, dove il sole plasma i materiali con le sue ombre e noi ne abbiamo un contatto costante. La natura che cresce organicamente; drastici cambiamenti politici e diversità culturali caratterizzano la società. Questa situazione mi ha insegnato ad improvvisare, essere flessibile alle varie situazioni, essere in grado di parlare di complessità e diversità. Questo bagaglio personale mi ha accompagnata quando ho lavorato in Estonia, in Francia, in Giappone: desiderosa di addentrarmi nel luogo, di capirne la cultura e le persone, il mio modo di fare architettura si arricchisce. E in qualche modo tutto questo me lo porto sempre dietro. Quando lavoro in Giappone la cultura locale si interseca con la mia cultura personale. Trovo che questo approccio sia anche un modo per sentirsi parte dell’ambiente.
La sua Stone Garden Tower, a Beirut, è un progetto immerso in un contesto di distruzione e ricostruzione, spesso senza memoria del passato. Come si può creare un senso di appartenenza tra la popolazione e il nuovo edificio?
Cita una parola importante: memoria. La memoria di un luogo trasforma uno spazio in un condensatore di conoscenza, di cose che si sentono o si vedono collettivamente. La Pigeon Rock a Beirut fa parte della memoria della città: l’edificio la richiama con la sua strana forma, con le sue aperture caotiche in cui la natura entra organicamente. Ciò entra già nella memoria e nel valore della città; quindi, ciò che ha riunito questi elementi in una costruzione è l’attaccamento al luogo. Anche il materiale aiuta, evocando il senso del tatto: la sua materialità non è solo linguaggio visivo, ma qualità materica e presenza che crea una connessione.
Come possiamo preservare il senso di appartenenza ai luoghi in un periodo storico aggredito dai conflitti internazionali? Qual è la sua posizione in qualità di architetta e cittadina?
Innanzitutto, mi sento un’abitante del pianeta Terra, per cui sono contraria a qualsiasi idea di proprietà, divisione, appropriazione, o alla pretesa che qualcosa mi appartenga solo per il fatto di essere un umano. La terra non mi appartiene, sono parte di questo luogo e devo restituirlo alle generazioni future come l’ho ricevuta. Dobbiamo imparare a vivere insieme come esseri umani, imparare dal nostro passato. Non possiamo ripeterci continuamente: dobbiamo imparare a vivere e creare un futuro più civile.
L’archeologia del futuro e l’architettura contemporanea
Guardando ai suoi progetti emerge anche la sua grande attenzione per il lavoro artigianale, il ruolo che affida alla tradizione nel processo costruttivo. Facendo riferimento a uno dei suoi ultimi progetti, l’Hermès Workshop, dove si trova, secondo lei, il confine tra tradizione artigianale e nuove tecnologie costruttive?
Si tratta di comprendere le tecniche primitive. Anzi, non le chiamerei primitive, perché non c’è nulla di primitivo in esse: sono molto all’avanguardia, frutto di una profonda comprensione dell’ambiente in cui viviamo. Nel progetto le tecniche vernacolari, legate ad esempio a specifiche modalità di cottura dei mattoni, sono state combinate con gli strumenti attuali di progettazione: abbiamo studiato come poter utilizzare il minor numero di mattoni e, attraverso la termodinamica simulativa, come ottimizzare il consumo dell’edificio.
Un processo applicativo dell’archeologia del futuro…
Si tratta davvero di un’archeologia del futuro: conoscere il patrimonio, il materiale e gli usi locali per combinarli attivamente alle strumentazioni del futuro; è sorprendente combinare le conoscenze di oggi a quelle di ieri. C’è un antico libro di Hermès, intitolato Jestes d’ Hermès, in cui sono descritti i diversi movimenti di taglio del cuoio, quante combinazioni di gesti diversi si possono fare con le mani. Cercare di estendere questo all’architettura vuol dire creare un attaccamento emotivo, in cui anche l’artigiano sia orgoglioso di quello che sta facendo.
Un aspetto interessante dei suoi progetti è una relazione diretta con le proprietà fisiche del materiale, che contribuisce alla buona performatività dell’organismo architettonico.
C’è un senso di apprendimento dal materiale, che in qualche modo già detta una certa forma. Se hai un mattone, esce un certo arco. Poi però inizi a dialogare con questa forma, la allunghi, ecco che l’arco diventa più fragile perché retto da gambe più sottili e dai al progetto una sensazione di movimento. Il cemento parla di gettata e richiama un gesto scultoreo; il legno richiama gli assemblaggi: il Serpentine Pavilion è assemblaggio e ripetizione degli stessi elementi e ciò porta magia.
Architettura, conflitti e futuro
Chiudiamo l’intervista con una delle domande del discorso dell’Arch Week 2024. Secondo lei, in che modo “l’architettura può essere il seme di un cambiamento?”
Credo che la fragilità sia qualcosa di molto importante, insieme con la comprensione di quanto siamo fragili nel mondo. Approcciarsi al mondo con una dimensione più umile è di vitale importanza, dà vita a un’architettura che ascolta: ciò non vuol dire che sia essenzialmente debole o negativa, ma piuttosto un racconto della fragilità della vita. Facendo ciò si porta bellezza e perché no, femminilità in architettura, un elemento che è stato per molto tempo un tabù. Spero che nel futuro l’architettura colga questa sfida e ci faccia vedere il mondo con occhi nuovi, permettendo alla società di darsi una nuova possibilità: abbiamo gli strumenti, ne abbiamo la capacità.
E con quale prospettiva possiamo guardare alle città con occhi nuovi?
Dovremmo prima di tutto comprendere che siamo parte di un ecosistema, ci influenziamo a vicenda. Se iniziamo ad essere consapevoli di quanto siamo legati, iniziamo a misurare ogni azione che compiamo in relazione al suo effetto sulla natura, sugli altri esseri umani, sull’ambiente. Dobbiamo iniziare a vederci come abitanti di un ecosistema piuttosto che punti isolati nello spazio. Penso poi che un altro elemento importante sarebbe quello di aprire la disciplina a diverse contaminazioni. Psicologia, biologia, fisica, medicina: portiamole nell’architettura. Permettere più porosità porta gioia. Ed è qualcosa di molto semplice, ma dalle straordinarie potenzialità.
Sophie Marie Piccoli
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