L’Alto Adige non è un’isola felice, ma un faro. Parola all’architetta Sandy Attia
Alla vigilia del traguardo dei venticinque anni di attività, in arrivo nel 2025, l'architetta Sandy Attia – direttrice e co-fondatrice di MoDusArchitects – fa un bilancio sui progetti del pluripremiato studio e si esprime sul tema della progettazione e realizzazione delle strutture scolastiche in Italia
Nata al Cairo e formatasi presso l’University of Virginia prima e alla Graduate School of Design della Harvard University poi, dove ha conseguito il Master in Architecture nel 2000, l’architetta Sandy Attia ha fondato lo studio MoDusArchitects con Matteo Scagnol ventiquattro anni fa. Di base a Bressanone, ma attivo in tutta Italia, lega la propria reputazione amche a vari interventi pubblici sul fronte dell’edilizia scolastica. Tema caro ad Attia, che è autrice del libro Progettare Scuole: tra Pedagogia e Architettura e ha partecipato alla stesura delle Linee guida per progettare, costruire e abitare le scuole del futuro. Con questa intervista, prosegue la nostra ricognizione sull’evoluzione delle strutture scolastiche in Italia.
Intervista all’architetta Sandy Attia
MoDusArchitects è attivo sul fronte dell’edilizia scolastica fin dagli esordi. Nel corso di questi anni, quali cambiamenti ha rilevato nel modo di intendere, concepire e costruire le scuole nel nostro Paese?
Il valore della scuola è condiviso da tutti e c’è un pieno riconoscimento del ruolo dello spazio scolastico. Si è formato nel tempo un vocabolario condiviso, composto da precisi termini capaci di ottenere una forte risonanza su genitori, dirigenti, architetti e sulla comunità scolastica in generale. Tuttavia, permane ancora un enorme divario tra le parole e le azioni concrete. Il più delle volte tali termini diventano vuoti slogan, anche a fronte di buone intenzioni e di attente professionalità.
Da cosa deriva, secondo lei, questo gap?
La conclusione a cui sono arrivata, soprattutto dopo le esperienze legate al PNRR, è che esiste una forma di conflitto all’interno del sistema di programmazione e attuazione: è lì che serve un radicale cambiamento. Il modo in cui vengono amministrati i progetti, intendo il carico di normative e gli apparati burocratici, spesso entrano in conflitto con l’iter progettuale-ideativo. E questo accade indipendentemente dai processi bottom-up o dal lavoro condotto a livello di progettazione partecipata con le comunità locali e con quella scolastica.
Come uscirne?
Non voglio lanciare un messaggio negativo, né limitarmi a facili critiche. Credo tuttavia che sia arrivato il momento di adottare un linguaggio netto, secco e soprattutto pragmatico. Basta parlare di innovazione scolastica, sostenibilità o bellezza nell’ottica di possibili miglioramenti futuri, se poi il presente non offre alle scuole le condizioni per fiorire da tutti i punti di vista. Il labirinto burocratico nazionale lo definisco un “problema di sistema”: è così ovvio e pervasivo che non si può più nascondere dietro alle parole. I progetti che riescono a essere realizzati bene sono il risultato dei “malgrado tutto”.
Può farci qualche esempio?
La prima scuola che abbiamo costruito, ormai vent’anni fa, era un asilo nido a Bressanone realizzato integralmente in legno. Prima di riuscire a costruirne un’altra con lo stesso materiale sono passati due decenni e non per mancanza di volontà da parte nostra: i sistemi costruttivi in legno costano di più e si devono confrontare con la normativa antincendio italiana che li osteggia. Penso quindi che sia facile esprimersi in termini di innovazione e sostenibilità: ma per dare a queste parole un valore architettonico ed estetico serve un cambiamento normativo e una visione dei costi di costruzione corretta. Con il concorso FUTURA – La scuola per l’Italia del domani abbiamo vinto il concorso per la nuova scuola primaria di Ospedaletto, a Gemona del Friuli, e lì finalmente faremo scuola tutta in legno: un miracolo!
Le scuole progettate da MoDusArchitects: una diversa dall’altra
A suo avviso quale potrebbe essere il peso dell’apparato burocratico nella piena riuscita del programma sulle 212 nuove scuole?
Siamo in un momento storico con un importante investimento economico che doveva e poteva attuare una trasformazione radicale del sistema burocratico e soprattutto normativo, semplificando le procedure e aggiornando ad esempio la normativa scolastica del 1975, assolutamente desueta. Ci troviamo di fronte all’attuazione di principi DNSH, CAM, in sé validi come concetto teorico, ma applicati su programmi funzionali e spaziali del tutto desueti. E soprattutto con un aumento di oneri e impegno per i progettisti fuori misura, trasformando l’azione e il pensiero progettuale in termini quantitativi e numerici piuttosto che qualitativi e poetici. Siamo di fronte a un meccanismo kafkiano in cui ognuno per restare a galla deve fare l’eroe. Sì, ci saranno delle realizzazioni riuscite, ma nel complesso temo che i risultati eccellenti saranno pochi.
Tra poche settimane studenti e docenti, oltre al personale amministrativo e ATA, torneranno nelle scuole che avete progettato in questi anni. Esistono degli aspetti ricorrenti negli edifici scolastici disegnati da MoDusArchitects?
“La scuola” rimane per noi un’istituzione importante all’interno della comunità con cui deve relazionarsi, sia in termini di autorappresentazione che in termini di valore espressivo. In poche parole, l’architettura della scuola deve parlare il linguaggio della comunità, il suo dialetto o la sua peculiare condizione remota o la sua grandiosità di nuovo quartiere cittadino che vuole emergere e farsi largo nella città. Ed è per questo che tutte le nostre scuole sono diverse, perché per osmosi respirano l’aria che le circonda e parlano nella lingua che sento dietro l’angolo. Nel nostro approccio progettuale, inoltre, c’è la volontà di dare più libertà al movimento degli alunni e degli insegnanti. Vogliamo favorire l’autonomia di questi soggetti, in modo che si sentano attivi nel loro percorso di apprendimento. Un programma planivolumetrico si compone di numeri e funzioni: questa è la base, ma poi si deve costruire una vita attorno ai parametri, in modo tale che una scuola non diventi un insieme di cellule indipendenti e frammentate, ma renda possibile la libera appropriazione degli spazi da parte della sua comunità. Per me la parola “libertà” è connaturata alla scuola e all’architettura.
Vuol dire, in un certo senso, rendere invisibile il contributo del progettista?
In realtà no, perché “libertà” non va tradotto con “scuola open space”. In ogni ambito, la libertà va sempre bilanciata con ulteriori aspetti, che nella scuola coincidono con le regole interne necessarie al funzionamento della vita scolastica, a un ordine intrinseco. Si tratta quindi di trovare un equilibrio nel rapporto dentro-fuori, nella relazione tra spazi individuali e collettivi, nelle diverse gradazioni di apprendimento. Più in generale direi che i nostri progetti non condividono un linguaggio, ma un approccio.
Parliamo di uno dei vostri progetti di edilizia scolastica più recenti: la Tartan School a Terlano (Bolzano). È un’architettura che sembra appartenere da sempre al contesto di inserimento.
È il risultato dell’ampliamento di un edificio molto articolato. Era stato ristrutturato negli Anni Ottanta e in quell’occasione furono inseriti, nel nucleo esistente, vari elementi. È stato quindi complesso immaginare come trasformarlo. Inoltre, si trova nei pressi di una cantina produttiva molto grande; quindi, ci siamo misurati con la difficoltà di capire la giusta scala dimensionale. La ricerca fatta è stata soprattutto a livello di forma, perché come architetti dobbiamo dare forma al territorio.
La copertura va intesa come un’evocazione delle montagne circostanti?
Abbiamo trattato il tema del tetto a falda come una questione architettonica, riuscendo a renderlo davvero la “quinta facciata”. Il lavoro con il tetto con tante falde non è esattamente un richiamo delle montagne: si tratta piuttosto di un “paesaggio di tetti”, come in fondo è Terlano stessa. Basta salire nei sentieri circostanti per comprendere come l’origine del disegno della copertura derivi proprio dal luogo. Nello stesso tempo, lavorando sulle diagonali si è generato un sorprendente dinamismo interno.
Non solo Alto Adige: i progetti dello studio MoDusArchitects
Avete sede in un territorio considerato un’eccellenza nel panorama architettonico italiano. Considerate il fatto di lavorare in quell’area come un privilegio oppure, specie nel lungo periodo, potrebbe rappresentare un limite?
Quando abbiamo iniziato per me il mondo era un luogo aperto. Non avrei mai immaginato che
sarei diventata parte di uno studio di architettura etichettato come sudtirolese. Con gli anni, siamo cresciuti come architetti e oggi siamo riconoscenti per le esperienze che abbiamo fatto in questo territorio: quanto realizzato qui è la combinazione di buona pratica, fortuna e collaborazioni importanti. In termini professionali questa provincia mi corrisponde, perché c’è un forte senso civico, si riconosce valore all’architettura, il livello delle maestranze artigianali è molto alto. E poi c’è una condizione lavorativa chiara: si partecipa a un concorso, il progetto migliore vince e si realizza. Fine. Per arrivare a questo risultato, però, c’è stato uno sforzo della pubblica amministrazione, con un’adesione del contenuto al progetto: non è casualità, sono scelte precise.
Un’isola felice, insomma…
L’Alto Adige non dovrebbe essere visto come un’isola felice, ma come un faro. È molto diverso. Pur con tanta concorrenza, noi architetti ci sentiamo parte di una comunità, perché abbiamo sulle spalle un contesto dove si può ragionare. Il dibattito è sempre vivo e questo è molto importante, perché l’architettura non si fa da soli, ma si è sempre parte di un sistema.
Nessun rimpianto?
A chi non piacerebbe progettare e costruire una biblioteca a Londra oppure un museo a New York? Personalmente sono molto affascinata dalle grandi città. Ma nello stesso tempo qui abbiamo cercato e costruito passo dopo passo il nostro percorso; le condizioni di vita e lavoro attuali ci fanno sentire “a casa”. Penso che chiunque debba individuare le sue condizioni ideali per vivere e lavorare bene, ovunque si trovi. Tra l’altro, se osserviamo il panorama italiano di oggi emergono studi giovani bravissimi che hanno trovato la loro strada in tanti territori diversi. Pensiamo a com’era Roma: almeno io, vent’anni fa nel nostro campo non percepivo il fermento architettonico che c’è oggi. L’Alto Adige, dunque, non è certo un’isola nel nulla.
MoDusArchitects verso i 25 anni di attività
Il prossimo anno taglierete il traguardo dei 25 anni di attività. Un arco temporale costellato anche da riconoscimenti che vi rendono una realtà di riferimento in Italia. Aspettative e timori per i prossimi vent’anni (e più) di attività?
Siamo arrivati dove siamo ora non perché lo studio sia composto da me e Matteo. Oggi siamo in dodici e abbiamo persone con noi da oltre dieci anni: è un risultato prezioso. Volendo parlare con un tono un po’ poetico, in futuro non dovremo perdere la freschezza, perché è la componente essenziale. Con freschezza intendo la forza delle idee: senza lo spazio e la libertà mentale, le idee non vengono fuori. A volte si dimentica che il nostro è un mestiere di pensiero: pensiero alto, anche astratto. È sempre importante viaggiare, leggere, lasciarsi ispirare per alimentare la nostra condizione di essere pensanti. Captiamo da tanti campi della conoscenza e dobbiamo cercare di tenere alta la cultura del fare architettura.
Indipendentemente dai premi, quali indicherebbe come i progetti che rappresentano una pietra miliare nel vostro percorso professionale?
Torniamo spesso con il pensiero alla Casa Kostner, una dimora e atelier d’artista a Castelrotto (Bolzano). È un progetto che concentra tante idee, nonostante sia fondamentalmente un’abitazione. È costruita tutta in legno, in un piccolo centro; è un progetto molto riuscito, specie nel rapporto tra la struttura e lo spazio abitato. E, a proposito di freschezza, è sempre fresco: direi che Casa Kostner è senza tempo. Cito poi il Centro di Riabilitazione Psichiatrica di Bolzano, un altro progetto che ci ha aiutato molto a livello strutturale, architettonico e funzionale. Ci sono tornata un paio di volte e mi sono proprio emozionata sia a vedere gli spazi vissuti come li abbiamo immaginati e anche com’è mantenuto. È stato l’esito di un processo durato quasi dieci anni, con cambiamenti forti anche a livello funzionale che però non hanno intaccato sull’idea forte alla base. E questo è stato anche merito del rapporto e del dialogo che si è instaurato con il medico che per molti anni lo ha gestito. È una struttura ospedaliera, quindi segue tutte le relative normative, ma è anche un luogo aperto, con laboratori di falegnameria, di arte e mestieri, in cui si realizzano opere di grande pregio.
Nessuna scuola, quindi?
Quello sulle scuole lo considero un percorso che abbiamo fatto e che prosegue. In questi anni ho avuto l’opportunità di studiare l’universo della scuola da tanti punti di vista: come progettista, ma anche come giurata nei concorsi di architettura o come consulente. Ad esempio Fondazione Agnelli che mi ha permesso di confrontarmi con una pedagogista per mettere a punto good practice e capire nel dettaglio tempi, offerta didattica, servizi e potenzialità del mondo scolastico. Infine, vorrei citare i nostri progetti a livello infrastrutturale. Tunnel, circonvallazioni, ponti sono opere con un impatto sul paesaggio molto più forte di un singolo edificio. Lavorare su questi temi ha cambiato la nostra prospettiva come architetti. È stato inaspettato e bellissimo misurarci con questo ambito del nostro mestiere.
Valentina Silvestrini
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