Alla prossima Biennale di Architettura coinvolgiamo le scuole e i futuri architetti 

Con l’avvio del conto alla rovescia per la Biennale Architettura 2025, riceviamo e pubblichiamo questa riflessione dell’architetto Isidoro Pennisi che, nella prossima kermesse lagunare, auspica un coinvolgimento attivo delle scuole di architettura

L’architettura sembra aver deposto la sua primaria funzione pubblica: continuare l’opera della natura con altri mezzi, realizzando le condizioni per vivere in realtà ambientali con caratteristiche estetiche innaturali. Il problema non è tanto se sia vero o no che esistano i cambiamenti climatici. La vera questione è se possiamo accettare che, per contrastarli e limitarli, si abbia come esito una realtà che destituisce di fondamento l’esistenza stessa di una vita innaturale con fini abitativi: l’esistenza di una vita che viva nonostante il pianeta e non sopravviva utilizzando il pianeta.  

Architettura e transizione ecologica 

La transizione ecologica ha un evidente presupposto errato: correggere un’operazione sbagliata cambiando il risultato. In altri termini, correggere il risultato degli stili di vita che impattano sul nostro pianeta non modificandoli, ma trovando una maniera diversa per alimentarli, rendendo sostenibile l’errore. La transizione ecologica è in realtà una rivoluzione produttiva. Sulla base di un’evidenza oggettiva, si stanno perseguendo interessi e obiettivi soggettivi, tesi soprattutto a conservare l’esistente. L’architettura è stata arruolata in questo progetto politico, economico e sociale, e per essere commisurata al compito, ha immolato il suo mandato storico, vestendosi di un abito accettabile, definibile come architettonicamente corretto. Non è però la produzione architettonica che preoccupa. In essa vi sarà sempre posto, per opere e protagonisti che imporranno la loro presenza difforme, la loro capacità non conforme, il loro talento progettuale non accordato al corale spirito del tempo. Il vero problema sono le scuole di architettura, in cui è sempre probabile che si consolidi il sentire di un tempo, e non una sua critica.  

Cosa sono oggi le scuole di architettura? 

Una scuola, infatti, ha la necessità di essere sintesi delle prevalenze culturali, attraverso il suo progetto didattico. Nella storia più recente avvenne negli Anni Settanta, quando l’emergere della questione urbana portò le scuole ad assorbirla al loro interno attraverso la centralità che assunsero le nuove discipline urbanistiche. Il cambiamento avvenne per via di stimoli che provenivano dall’esterno della disciplina e si accese nel momento in cui i problemi della città e delle procedure di trasformazione urbane smisero di trovare un posto estemporaneo nei bagagli disciplinari personali, diventando oggetto di sperimentazioni. E fu lo stesso anche quando il problema della storia diventò quello del ruolo nel presente delle culture materiali precedenti. Quel cambiamento investì la stessa definizione di manufatto architettonico e delle sue leggi costituenti. Un cambiamento che intravedeva un fine in cui la definizione che avrebbe assunto l’architetto era quello dell’intellettuale organico – nel senso che Antonio Gramsci assegna a questo termine. Una definizione che conteneva al suo interno la necessità, per l’architetto, di tracciare dei segni che fossero la conseguenza, in termini organici, delle dimensioni della realtà fisica, sociale ed economica. Oggi le scuole di architettura non sono sinonimo di più un iter artistico e umanistico, come lo furono sino al secondo dopoguerra. E nemmeno di un iter sufficientemente politecnico, come lo sono state sino alla fine dello scorso millennio, quando alla domanda se l’architettura fosse arte o scienza si poteva rispondere proprio attraverso scuole che tenevano insieme entrambe.  

La scuola di Mendrisio. Un progetto, Teatro dell’architettura Mendrisio, 2024. Photo Enrico Cano
La scuola di Mendrisio. Un progetto, Teatro dell’architettura Mendrisio, 2024. Photo Enrico Cano

La figura dell’“architetto polinientico” 

Oggi l’architettonicamente corretto ha bisogno di una scuola adatta a produrre “architetti polinientici”, con un sapere “polinientico”. Ha bisogno di una scuola in cui si fa credere che il confronto con le questioni dell’ecologia e della sostenibilità siano una novità per l’architettura e il costruire, e quindi in cui è stato eliminato ogni possibile riferimento, tecnico e formale, a ogni precedente che non abbia un’esplicita e dichiarata formalizzazione sostenibile contemporanea, per soluzioni estetiche e materiali. Di una scuola in cui si semplifica la questione dei fabbisogni umani, banalizzando la ricerca della qualità, appiattendola solo sulla dimensione energetica. Di una scuola in cui si banalizza la rilevanza del rapporto con i fattori di localizzazione che formano i luoghi. Di una scuola in cui si banalizza la ricerca di una bellezza formale e spaziale, che ha una relazione storica e continua con il concetto etico di sobrietà, trasformando questa ricerca nell’applicazione di soluzioni finalizzate al concetto economico di risparmio. L’architettonicamente corretto usa nelle scuole una serie di preconcetti soggettivi, scelti opportunamente per supportare e promuovere una fase della nostra storia, in cui esistono motivi sociali, economici e demografici, per un uso geopolitico dell’emergenza ambientale. 

L’architettonicamente corretto e il destino delle città 

L’importanza dell’architettonicamente corretto all’interno di questo progetto geopolitico consiste nella specifica influenza che l’architettura ha sul prodotto artificiale più rilevante dell’umanità: la città. Così come il positivismo classico servì alla rivoluzione industriale, per forgiare un pensiero sul destino dell’uomo e delle società, il positivismo ecologico serve a giustificare un’evidente ridefinizione dell’assetto dei poteri su scala globale, da attuare attraverso un profondo cambiamento dei paradigmi energetici mantenendo però invariati gli stili di vita. Nessuno di noi ha verità in tasca, ma forse può avere qualche idea del vero, da confrontare con altre se si ricostituissero gli ambiti di un dibattito. 

Il Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale di Venezia. Foto Jens Schwan
Il Padiglione Centrale dei Giardini della Biennale di Venezia. Foto Jens Schwan

Verso la Biennale di Architettura 2025 

Nel 2025 la Biennale di Architettura di Venezia potrebbe avere l’occasione di rivedere in maniera critica questa prima porzione di anni e i risultati dell’architettura sostenibile, per cogliere le eventuali e realistiche correzioni di rotta da assumere. Dovrebbe farlo per stare sul pezzo, come si dice, in linea con i cambiamenti che su questa questione sono già sul tavolo della politica. Il nuovo corso dell’Unione Europea e il prossimo mandato dell’amministrazione americana saranno caratterizzati da forme di rivisitazione delle politiche energetiche, delle strategie e delle scadenze temporali sulla scomparsa dei fossili, delle soluzioni legislative che, nella foga del ripiegamento, potrebbero essere errate come quelle che si vorrebbero correggere. Può la Biennale di Architettura di Venezia, essere il luogo per una riflessione ampia e offrire una parte del suo tempo e del suo programma a un confronto reale, vero, senza pregiudiziali, coinvolgendo soprattutto le scuole di architettura e chi le anima? Può uscire, proprio dal Padiglione Italia, dal suo programma di attività, una forma di confronto su questa questione? 

Cambio di paradigma per l’architettura: da “Less is More” a “More from Less” 

Ho in mente, se volete, un pretesto non di poco conto, dato dalla memoria di Enrico Berlinguer che in questo 2024 abbiamo onorato. Su quest’argomento ha molto da ricordarci, in maniera originale e forse ambiziosa. “L’austerità comporta delle restrizioni a delle disponibilità cui si è abituati; a delle rinunce rispetto a certi vantaggi acquisiti. Noi siamo convinti che la sostituzione di certe abitudini attuali con altre, più rigorose e non sperperatrici, non conduca a un peggioramento delle qualità e umanità della vita. Una società più austera può essere più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana”. Queste parole di Enrico Berlinguer chiariscono quale potrebbe essere la strada per un’architettura della città in cui le trasformazioni necessarie per correggere l’errore non consistono solo nel trovare delle fonti energetiche diverse e pulite per alimentarlo. Si tratta piuttosto di prefigurare nuove relazioni urbane che siano in sé capaci di riformulare un’estetica pubblica più equilibrata, sobria, austera rispetto al tempo, alle risorse e di conseguenza meno incisive sul clima. Forse è il caso di dimenticare che il “meno è più”, e di porsi come obiettivo quello di ottenere “di più da meno”. 

Isidoro Pennisi 

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Isidoro Pennisi

Isidoro Pennisi

Isidoro Pennisi è nato a Catania nel 1962, ma ha vissuto stabilmente e per anni anche in Puglia e in Calabria. Se volessimo trovare una sintesi, si potrebbe dire che ha vissuto stabilmente in Terra Federiciana per quasi tutti i…

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