Conversazioni di architettura. Il linguaggio dei sensi e le forme di comunicazione non verbale
Parte con questo articolo un ciclo di 10 lezioni di Luigi Prestinenza Puglisi. Il primo appuntamento racconta in che modo l’architettura comunica attraverso le geometrie, i colori, i materiali e, in genere, i segni non verbali
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Credo che sia ormai scontato che viviamo in un mondo dove tutto comunica. Lo vogliamo o no, comunica il nostro modo di vestire e di muoverci, gli oggetti che usiamo, la nostra postura, il modo di scrivere e ovviamente tutte le forme d’arte, verbali e non verbali quali la pittura astratta, la musica, l’architettura.
Come comunica l’architettura?
Obiettivo di questa prima conversazione è cercare di capire in che modo l’architettura comunichi attraverso le geometrie, i colori, i materiali e, in genere, i segni non verbali. E lo faccia senza richiedere al fruitore alcuna cultura specialistica.
Per dare una risposta, notiamo subito che in generale tutti noi, indipendentemente dalla nostra formazione culturale, facciamo ampio ricorso alla comunicazione non verbale ritenendola più espressiva e, per alcuni aspetti più efficace, di quella verbale. Per esempio, troviamo toccanti le canzoni di cui ci piace la musica anche se sono in una lingua a noi sconosciuta e le preferiamo alla loro versione in italiano perché, tradotte, si rivelano deboli o smielate.
Riteniamo cioè la musica più comunicativa del testo, anche se, poi, dobbiamo ammettere che una musica senza parole è più vaga, cioè ha una interpretazione soggettiva poco precisa (e, forse, è proprio questa vaghezza che preferiamo). Similmente, apprezziamo i colori per la loro capacità di comunicarci immediatamente uno stato d’animo. Ma, anche in questo caso, dobbiamo ammettere che la comunicazione è vaga e che, molte volte, per esempio con un quadro astratto fatto di soli colori, conoscere l’autore e il suo punto di vista e potersi aiutare con un titolo avrebbe aiutato una migliore comprensione.
Musica, architettura e filosofia
La seconda osservazione è che non sappiamo quanto i messaggi che ci arrivano dalla musica, dal colore, dalle forme geometriche, li comprendiamo per una nostra predisposizione naturale oppure per una convenzione culturale. L’arancione e il giallo sono, per esempio, colori che a tutti, indipendentemente dalla loro cultura, dovrebbero comunicare energia. E lo stesso Immanuel Kant parla di colori che ci predispongono a certi stati d’animo. Ma è anche vero che culture diverse attribuiscono significati diversi agli stessi colori, perché li vedono, secondo Ernst Cassirer ed Erwin Panofsky, con gli occhi della loro cultura in un preciso momento storico. E, difatti, alcuni si vestono di bianco quando sono a lutto, altri quando si sposano. Inoltre, certi colori da alcune culture non sono bene individuati e pertanto non hanno neanche un nome che li distingue dagli altri. Noi, infatti, secondo la filosofia delle forme simboliche, percepiamo il mondo attraverso le categorie della nostra mente, cioè, appunto, attraverso forme simboliche, o se vogliamo filtri, che variano nel tempo e nello spazio (un po’ come gli a-priori kantiani ai quali la filosofia delle forme simboliche di Cassirer si ispira, ma le forme simboliche, a differenza degli a-priori kantiani, non sono universali e variano nel tempo).
In ogni caso, anche se non concordiamo con la teoria delle forme simboliche, quando interpretiamo l’effetto di un suono, un colore, un odore, non sappiamo mai con esattezza quanto quello che percepiamo sia naturale, spontaneo e immediato e quanto invece direzionato dalla cultura. Anche se si tratta di forme che hanno tutti coloro che vivono nella nostra epoca e condividono il nostro universo culturale.
La filosofia delle forme
Per superare la vaghezza e l’ambiguità è, a volte, preferibile affiancare al non verbale il verbale. Abbiamo accennato ai titoli dei quadri, ma i risultati più efficaci di questa possibile strategia sono nel cinema dove la musica sottolinea, rafforza e esalta le singole scene. Con colonne sonore che, a volte, sono talmente espressive e universali da essere estrapolate dal film e vendute come normali brani musicali. Vi confesso che io sono innamorato della colonna sonora de Il laureato e, ogni volta che la sento, percepisco la fresca libertà di chi ha venti anni. Francamente, però, non saprei dire se questa sensazione non derivi in parte dal ricordo del film.
Il linguaggio verbale, d’altronde, ha sempre bisogno di essere rafforzato e il non verbale di essere indirizzato. Notava Immanuel Kant che la parola orale è accompagnata dal gesto e dal tono. Cioè accorgimenti non verbali che ci permettono di calibrarla, sottolinearla, esplicitarla, riempiendola di connotazioni. Tanto che, variando il tono o facendo alcuni gesti, per esempio alzando le sopracciglia, si può cambiare completamente il significato di quello che stiamo dicendo: “io te lo dico perché te lo devo dire ma, capisci a me, la penso in un modo molto diverso”.
L’aneddoto di Piero Sraffa e Wittgenstein è illuminante in proposito. L’economista italiano mostra a Wittgenstein il puparuolo, cioè un gesto napoletano, e il filosofo austriaco capisce che studiare da solo il linguaggio verbale non avrebbe portato a nulla, solo ad astrazioni prive di senso (secondo altri – ma poco cambia- Sraffa non mostrò il puparuolo ma fece una pernacchia).
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Le dimensioni dell’architettura
Facciamo un passo avanti e chiediamoci cosa succede quando, come accade per interpretare forme e colori del’arte e l’architettura, non abbiamo a disposizione il supporto del linguaggio verbale. La prima cosa che notiamo è che si fa in modo che i segni non verbali si supportino a vicenda. Prendete per esempio un quadro di Kandinskij e uno di Mondrian. Noterete la coerenza con la quale ciascun pittore ha messo insieme forme e colori: Kandinskij forme e colori dinamici, Mondrian geometrie ortogonali e colori puri. Dal loro confronto non è difficile ipotizzare che mentre il primo ha una visione dinamica della realtà, il secondo si muove lungo una direzione ideale e platonica. Certo, mi direte, se non avessimo avuto una infarinatura di cultura delle avanguardie, avremmo fatto fatica a capirlo da soli. E, difatti artisti e architetti scrivono e parlano molto delle loro opere, per evitare interpretazioni arbitrarie e/o erronee. A volte, per imbrogliare le carte e meglio vendere i loro prodotti (si pensi, per esempio, al dilagare dei concept per raccontare l’architettura).
Dove i segni non verbali appartengono a numerose e diverse famiglie è in architettura. Nello spazio dell’architettura giocano infatti, tra le altre, la dimensione tattile, quella dei colori, quella della forma geometrica, della luce e anche dell’olfatto. Vi è, infine, la dimensione del movimento. Come ha ben individuato con una immagine chiara e perentoria Rem Koolhaas, l’architettura si comporta come una camicia di forza. Costringe a muoverci in certe direzioni invece che in altre. E, per farlo, entra strettamente in relazione con il nostro corpo.
Possiamo quindi concludere che genera una infinità di messaggi non verbali. Ma, anche se tutte queste informazioni che provengono da medium differenti (il movimento, la luce, il colore, il tatto, l’odore), aiutano a una migliore comprensione, il messaggio continuerà ad essere vago rispetto a uno verbale. Inoltre, anche in questa circostanza, non sapremo mai con precisione quanto dell’interpretazione derivi da una naturale predisposizione che abbiamo per le forme, o da acquisizioni culturali.
L’esperienza del corpo con l’architettura
Heinrich Wöllflin in proposito sosteneva che esiste un parallelo tra l’architettura e il nostro corpo ed è attraverso la conoscenza del corpo che noi capiamo immediatamente, senza troppe mediazioni culturali, lo spazio dell’architettura. Su questa linea si muovono le scuole di pensiero, che a partire dall’Ottocento, hanno puntato le loro ricerche sull’empatia, cioè quell’immedesimazione che ci fa entrare in una stretta relazione di simpatia o antipatia con le qualità dello spazio.
Anche se non li abbiamo chiamati con il loro nome, abbiamo finora sempre fatto riferimento ai cinque sensi: vista, olfatto, tatto, udito, gusto. Mi piacerebbe che, da questo punto in poi, li consideraste come i mezzi attraverso i quali noi captiamo le informazioni dal mondo che ci circonda. Noi, come è noto, dei cinque sensi, privilegiamo il primo, la vista. Numerosi commentatori hanno sostenuto che ciò deriva dal fatto che la nostra civiltà occidentale è basata sullo sguardo. Nietzsche ha parlato di atteggiamento apollineo e su questo argomento c’è un bellissimo saggio di Camille Paglia che vi suggerisco: Sexual personae. Arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson.
Ma certo è che le informazioni ci giungono anche dagli altri sensi. Con l’olfatto, per esempio, percepiamo una possibile fuga di gas (e difatti, per sicurezza, il gas, che sarebbe inodore, viene trattato in modo da essere puzzolente e facilmente avvertibile), con l’udito a volte ci orientiamo per cercare il telefonino che abbiamo perso da qualche parte della casa (“cara, mi fai uno squillo, che capisco dove diavolo sta?”) e percepiamo la musica, con il tatto captiamo numerose informazioni sul mondo, per esempio al buio troviamo, aiutandoci con le mani, l’interruttore della luce (pensiamo a quanto sia importante il tatto per i non vedenti). Il gusto entra un po’ meno nelle nostre riflessioni di architetti anche se dobbiamo riportare di alcuni oggetti di design contemporaneo che si possono leccare e, in un certo senso, assaporare.
È importante, a questo punto notare, che più una informazione è ridondante, cioè è trasmessa attraverso diversi organi di senso, più è efficace. È questo il motivo per il quale gli avvisi di pericolo è bene che insieme ricorrano alla vista e all’udito (così siamo sicuri che raggiungano ciechi e sordi) e che tutte le informazioni importanti debbano essere ripetute per fare in modo che, se non provvede un senso, provvede un altro.
È ugualmente vero, però, che un senso può distrarre l’altro ed è questo il motivo che quando baciamo intensamente lo facciamo a occhi chiusi e ci innervosiamo se il partner li tiene aperti perché non si concentra abbastanza sul flusso di informazioni affettive che gli stiamo trasmettendo, per guardare invece se il soffitto necessiti di una mano di pittura oppure se fuori stia per piovere.
Riflessioni estetiche sull’architettura
Torniamo alle nostre riflessioni estetiche e facciamo una breve ricapitolazione: l’architettura ci parla attraverso lo spazio, ricorrendo ai cinque sensi (soprattutto quattro). Le informazioni che ci comunica sono funzionali ed espressive. Le funzionali sono abbastanza precise e derivano da consuetudini codificate (dove è la porta di ingresso, come si apre, dove sono gli interruttori, dove ci si siede, se l’impianto del gas perde…). Quelle espressive sono vaghe, anche se il fatto che si rafforzino le une con le altre certamente aiuta.
A questo punto dobbiamo aprire una parentesi per parlare dell’architettura contemporanea, notando che a partire da un certo punto della sua storia -io direi da inizio del Novecento, con le avanguardie del neoplasticismo, del purismo, del futurismo e del costruttivismo- ha percorso un irreversibile cammino di astrazione. Per capire cosa comporti, pensate a una casa tradizionale con il suo tetto, la sua finestra con persiane, i suoi archetti dove la geometria e i colori svolgono un ruolo secondario, ancillare. Adesso pensate alla stessa casa disegnata nel 1924 da Gerrit Rietveld, un artista neoplastico. Il tetto viene eliminato e diventa un piano, la finestra riformulata e diventa un vuoto che contrasta i pieni, le persiane trasformate in rettangoli che sembrano volare, le ringhiere in linee e ogni altro componente è tradotto in una forma geometrica colorata. La geometria da ancella diventa protagonista. E l’architettura una composizione geometrica astratta. Lo stesso processo di astrazione lo rileviamo nel modo in cui sono articolati gli spazi interni: le stanze perdono la loro individualità per diventare entità tridimensionali tra loro collegate. E, difatti, non abbiamo più soggiorno, tinello, cucina ma angoli: zona giorno, zona notte, angolo studio, angolo cottura…
Comincia a manifestarsi l’idea che l’architettura sia una avventura spaziale tra volumi, colori e situazioni diverse.
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Forme e colori in architettura
Insieme a Rietveld viene in mente Le Corbusier con la sua proposta di realizzare le promenade architecturale, cioè le passeggiate architettoniche. Loos, che teorizza il raumplan, cioè la distribuzione dinamica e il dimensionamento delle stanze in relazione al loro ruolo e funzione. Mies per il quale la strategia di dare vita agli spazi non ha nome, ma non ci vuole molto a capire che la applica rigorosamente: il padiglione di Barcellona del 1929 è pensato per una fruizione dinamica con alternanza di pareti opache e trasparenti.
Sono evidenti le analogie con la musica. Gli spazi si susseguono tra loro come i suoni in uno spartito musicale. Analogia questa che, a dire il vero, era stata ipotizzata anche in secoli precedenti, quando non c’era ancora la promenade architecturale ma non mancava abilità spaziale e senso della scenografia, si pensi al barocco.
Attenzione però: come sempre accade con le metafore, questa analogia illumina ma può essere fuorviante in quanto ci potrebbe fare pensare che l’architettura debba diventare una musica di second’ordine. È l’errore (certamente fertile) che ha fatto Steven Holl nella Stretto House la cui idea compositiva si rifà a un brano musicale dello zigano Bela Bartòk, Music for strings, Percussion and Celeste. Da qui la equazione matematica un po’ delirante: Material x sound / time = material x light / space.
Parlare di analogia con la musica vuol dire tutt’altra cosa: che l’architettura può essere strutturata come un continuum che propone in sequenza non equivalenti dei suoni ma esperienze architettoniche.
E che forme, colori, materiali debbano essere relazionati e coerenti tra loro (oppure coerentemente incoerenti, se la logica che si persegue è quest’ultima). Pensiamo per esempio al Museo Ebraico di Libeskind: la forma a zig-zag dell’edificio principale, il passaggio dai caldi spazi al chiuso ai freddi spazi all’aperto, il cemento interno e il rivestimento metallico, il modo espressionista in cui è trattata la luce, il disorientamento che nasce dalla studiata composizione degli spazi, tutto contribuisce a caratterizzare in senso unitario l’edificio, il cui tema è la Storia del popolo ebraico.
La musica e i colori degli architetti
Oppure alla diversa coerenza del Guggenheim di Gehry, segnato dalle linee curve e dai materiali riflettenti ma, soprattutto, dal percorso a spirale del grande spazio centrale da cui si dipartono le sale espositive.
Ci accorgiamo, insomma, che il parallelo con la musica va preso cum grano salis perché una cosa sono gli spazi, un’altra le note.
L’edificio, anche questa volta, ci comunica sensazioni non facilmente traducibili nei termini rigorosi di un linguaggio scientifico: e, difatti, per descriverlo usiamo aggettivi vaghi quali chiuso, avvolgente, stimolante, dinamico, armonico, allegro, funereo, monumentale etc. Ne segue che, come succede quando si discute di una composizione musicale, due interlocutori possono attribuire alla stessa costruzione qualità o difetti diversi e a volte opposti. E così per alcuni l’edificio di Grafton per la Bocconi a Milano è austero, per altri monumentale, per altri autoritario, per altri un generoso inserimento urbano, per altri ancora una presenza minacciosa. Provate, se non ci credete, a postare l’immagine di un edificio sui social descrivendolo con un aggettivo e in poco tempo appariranno i commenti più diversi e tra loro opposti.
Nonostante questa difficoltà, non esitiamo a spingerci anche oltre traducendo colori con suoni, astratte geometrie con forme umane, sensazioni tattili con qualità spirituali, curve con richiami erotici. Consideriamo bulimica un’opera di Zaha Hadid e anoressica una di Kazuyo Sejima. Non abbineremmo mai Tadao Ando con un colore particolarmente acceso o Benedetta Tagliabue con uno spento. Pensiamo che alcuni edifici sono come le canzoni neomelodiche e altri li paragoniamo a brani jazz. Non è difficile, addirittura, chiedere a un computer, in base a regole che gli dovremmo fornire, di tradurci un medium in un altro: per esempio i colori o le forme in suoni. Non pochi rimangono, e forse giustamente, infastiditi da questi confronti e proiezioni tra un medium e l’altro. Le traduzioni sono spesso sin troppo soggettive e criticamente molto discutibili.
Eppure, sentiamo che la capacità di captare immediatamente lo spirito dell’edificio è molto importante. Dal punto di vista progettuale perché ci consente di prevedere le sensazioni, sia pur diversificate, che l’opera susciterà.
Cinema e architettura: Il laureato
Dal punto di vista critico perché permette di afferrare le intenzioni dei progettisti. Come mostrano alcuni test psicologici, ciò che produciamo riflette ciò che siamo, spazializza la nostra personalità e, di conseguenza, divulga un modo di vivere e vedere la nostra epoca. E così è per l’architettura. Soprattutto quella in cui la componente espressiva è prevalente su quella teorica ed intellettuale. Gehry, Wright, Hadid, fanno poca teoria e li capiscono in molti, sia pure all’interno dei limiti che abbiamo cercato di delineare in queste pagine, mentre Koolhaas o Eisenman, percettivamente meno accattivanti, risultano più ostici, se non incomprensibili al di fuori di una mediazione intellettuale che spieghi il perché delle loro scelte.
Rimane comunque il fatto che, in tutti i casi, le sensazioni generate da forme, volumi, colori, rumori non sono il racconto del film, ma la colonna sonora. È vero che già dalla colonna sonora si può intuire che Dustin Hoffman tornerà a riprendersi l’innamorata. Ma ne vorremmo la certezza.
A questo punto ci chiediamo: in architettura, oltre la colonna sonora, il racconto del film esiste? E se esiste, come riusciamo a decodificarlo? Ne parliamo nelle prossime puntate.
Luigi Prestinenza Puglisi
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