Conversazioni di architettura. L’autonomia della disciplina
Percorrendo figure come Bruno Zevi, Aldo Rossi e Peter Eisenman, Luigi Prestinenza Puglisi affronta il concetto dell’autonomia in questo terzo appuntamento delle sue conversazioni di architettura

La parola autonomia in architettura è adoperata in due modi diversi: uno teorico e uno poetico. Dal punto di vista teorico la parola serve a sottolineare che l’architettura è un campo disciplinare a se stante, appunto autonomo. Dal punto di vista poetico per rivendicare la progettazione di opere che sono del tutto architettoniche, cioè che si rifacciano in maniera esclusiva se non totalizzante ai valori che caratterizzano la disciplina e non si compromettano con altri valori che non hanno niente a che vedere o che, comunque, metterebbero a rischio questa purezza. Da qui uno stile, quello dell’autonomia, che non differisce granché da altri stili quali per esempio il purismo, l’High Tech o il decostruttivismo.
L’autonomia dell’architettura in senso teorico
Di questo uso operativo della parola autonomia, ne parleremo nella seconda parte di questa conversazione. Per adesso focalizziamoci sul primo aspetto, osservando che rivendicare, dal punto di vista teorico, l’autonomia dell’architettura non vuol necessariamente negare il fatto che l’architettura possa essere influenzata da altre arti, quali per esempio la pittura e la scultura, oppure che non subisca l’influenza della tecnologia o che non le persegua finalità sociali, ma solo affermare che non sono queste che la caratterizzano e la individuino concettualmente. Insomma, che non risiede là il valore di una buona architettura. Esattamente come il valore di una poesia o di un romanzo non deriva dalla giustezza delle tesi che sostiene. Un romanzo politicamente innovativo e illuminante può, infatti, essere pessimo dal punto di vista letterario perché retorico, sciatto e prolisso, mentre invece uno con tesi anche non condivisibili potrebbe – si pensi ai romanzi di Louis-Ferdinand Céline – essere un capolavoro.
Bruno Zevi e l’autonomia dell’architettura
La più convincente rivendicazione dell’autonomia dell’architettura, a mio personale parere, risale al 1948 ed è stata formulata da Bruno Zevi con il libro Saper vedere l’architettura. Per il quale la specificità dell’architettura è lo spazio.
La caratteristica dell’architettura, infatti, è accogliere, ospitare, essere percorribile generando una esperienza percettiva che si sviluppa nel tempo, producendo una consapevolezza quadridimensionale, insieme spaziale e temporale. Pertanto non c’è motivo, secondo Zevi, di cercare di definire l’architettura su criteri astratti di bellezza o di bruttezza. Bisogna, invece, optare per un giudizio più mirato: “L’architettura bella sarà l’architettura che ha uno spazio interno che ci attrae, ci eleva, ci soggioga spiritualmente”.
Non poche cose, però, vengono lasciate fuori da Zevi. Per esempio, se ci poniamo da un punto di vista storico (cioè usiamo un approccio diacronico), facciamo fatica a inserire i templi greci e le piramidi egizie che non hanno particolari valori spaziali. E, se cerchiamo individuare cosa viene incluso e cosa escluso in uno spaccato temporale (con un approccio sincronico), faremmo fatica a inserire la stessa architettura delle città, cioè l’urbanistica, che però viene abilmente recuperata da Zevi, immaginando che strade e piazze siano degli interni urbani.
L’arduo compito di definire una disciplina
E, in effetti, delimitare con precisione un qualsiasi campo disciplinare è una impresa difficile, se non disperata. Si pensi per esempio a quanto sia difficile dire cosa sia la fisica o l’arte. Basta infatti una conoscenza appena superficiale dell’argomento, per vedere che usiamo la parola arte per indicare manufatti tra loro non confrontabili e si ricorre alla parola fisica per indicare approcci non meno differenziati. E difatti i teorici che si sono posti questo problema sono arrivati alla conclusione tautologica, non particolarmente chiarificante ma epistemologicamente rivoluzionaria, che il campo disciplinare della fisica corrisponde con quello che gli scienziati chiamano fisica e quello dell’arte con quello che gli esperti d’arte chiamano arte. Cioè, in ultima istanza, che di una disciplina non può essere dato che un racconto storico. Dobbiamo quindi accettare che i confini dei campi disciplinari non siano chiari e oltretutto siano variabili nel tempo. E che è meglio essere inclusivi che esclusivi per due motivi. Primo: per non perdere per strada pezzetti della propria storia in nome di una oltretutto impossibile coerenza. Pazienza, quindi, che gli obelischi o la colonna di Traiano non abbiano significativi spazi interni o che, come vedremo, i decorated shed teorizzati da Robert Venturi siano interessanti più per lo studioso del linguaggio che per chi si occupa di spazio. Secondo: per non perdere di vista, sempre in nome di una discutibile coerenza, i continui e inevitabili mutamenti della disciplina.
Il labile confine tra scultura e architettura
Si pensi, solo per fare un esempio, al fatto che, un tempo, il confine tra architettura e scultura era sufficientemente chiaro e delimitato nonostante il fatto che molti architetti fossero, al contempo, scultori. E così, per quanto non manchino elementi scultorei nelle chiese del Borromini o elementi architettonici nelle sculture di Bernini, nessuno avrebbe mai confuso le due arti. Oggi, invece, le architetture di progettisti come Frank O. Gehry sembrano pensate come sculture abitabili mentre quelle di Santiago Calatrava come gigantesche macchine semoventi. Si dirà che anche queste opere possono essere valutate in termini spaziali, e quindi non mettono in discussione l’assunto zeviano. Certamente. Ma non si fa fatica a vedere che il campo disciplinare si è, per così dire, distorto e ampliato, facendo acquistare crescente importanza a aspetti che prima non avremmo definito architettonici.
Esistono confini disciplinari?
Lo abbiamo accennato in apertura: la storia delle discipline artistiche ci mostra che mutamenti e ridefinizioni del campo disciplinare non sono episodici ed eccezionali, ma la norma. Che l’autonomia è sempre messa in discussione da fattori eteronomi. Che molti architetti amano lavorare ibridando discipline e punti di vista diversi, introducendo nuovi materiali concettuali, capovolgendo il punto di vista. La stessa evoluzione degli stili, che si succedono inesorabili (ieri andava il decostruttivismo, oggi il minimalismo, domani il neo-materico) mostra quanto sia forte l’ influenza dei fattori extradisciplinari. Non ci vuole molto ad accorgersi, infatti, che queste mode, coinvolgendo l’arte, la letteratura e finanche il nostro modo di vestire e di mangiare, hanno carattere eteronomo. Rispondono a quello che i tedeschi chiamavano Zeitgeist, ovvero Spirito del tempo, che è, pur nella sua genericità, quanto di più eteronomo si possa pensare. A questo punto ci chiediamo se ha ancora senso definire l’autonomia delle discipline e non comportarci, invece, come Benedetto Croce che negava che ci fossero differenze tra le varie arti perché tutte, in un modo o nell’altro, sono immagini, cioè metafore, con le quali esprimiamo il mondo.
Architettura e strutturalismo
L’impresa di voler fare a meno del criterio dell’autonomia appare però disperata perché gli architetti sembrano particolarmente affezionati a questo termine. Forse perché fa credere loro di essere speciali, di avere un ruolo ben definito nella società. E così in ogni epoca e ad ogni latitudine inesorabilmente compaiono critici e architetti che hanno una loro idea dell’autonomia e, in base a questa, pensano di rifondare la disciplina, per riportarla finalmente alla sua purezza, alla sua essenza. Ciò è accaduto con particolare virulenza negli Anni Sessanta, con il boom degli studi sul linguaggio. In quegli anni, infatti, è stata particolarmente forte l’ influenza della linguistica e della semiologia, e cioè l’idea del mondo come un sistema organizzato di segni, ovvero, per adoperare la parola magica di allora, di strutture. Non ci vuole molto, a questo punto, ad intuire che il passaggio logico tra la struttura e il campo disciplinare autonomo (e cioè strutturato in relazione a leggi autonome) è abbastanza breve. Non ve la faccio lunga: di queste ricerche quattro mi sembrano le più importanti dal punto di vista teorico: sono quelle di Peter Eisenman, di James Stirling, di Giorgio Grassi e di Aldo Rossi.

Peter Eisenman
Peter Eisenman dei quattro è sicuramente il più colto e cervellotico. E anche il più autocompiaciuto e oscuro. I suoi testi sono sempre incomprensibili e forse proprio per questo apprezzati. Ognuno, infatti, può leggerci quello che preferisce. Il suo punto di partenza è il processo di astrazione che ha caratterizzato l’architettura contemporanea, a partire da inizi del Novecento. Ne abbiamo parlato: i tetti e le pareti si sono trasformati in piani, le finestre in bucature. L’architettura è diventata una composizione geometrica la cui bellezza non è da ricercare in fattori esterni (cioè extradisciplinari), ma nella logica interna, nella sua composizione. Da qui case che sono individuate con numeri e ciascuna delle quali è pensata come un quadro astratto. Anche l’abitabilità, pur necessaria, passa in secondo piano, tanto è vero che, per esempio, nella House VI il letto matrimoniale è spezzato in due per rispettare la logica compositiva dei pieni e dei vuoti, e tra i due letti rimanenti c’è un taglio nel solaio, che per non diventare pericoloso è protetto da una lastra di vetro. Il critico Manfredo Tafuri che, nonostante la sua dichiarata neutralità, è stato di fatto uno dei portavoce dell’autonomia, descrive il lavoro di Eisenman in termini di un linguaggio dove è esasperata la dimensione sintattica e azzerata quella semantica. Non è importante, infatti, che l’edificio dica alcunché, è fondamentale che rimanga all’interno del suo recinto disciplinare, fatto di pura geometria architettonica. Ma, si obietterà, le geometrie architettoniche possono essere numerose: da quelle rinascimentali a quelle organiche, da quelle classiciste a quelle del Movimento Moderno. Eisenman, almeno nel suo primo periodo, opta per il Purismo lecorbusieriano. Forse per due ragioni. La prima è che il Purismo si presenta come un linguaggio sufficientemente geometrico ed astratto quindi facilmente manipolabile. La seconda che è privo di elementi espressivi e quindi sufficientemente silenzioso dal punto di vista semantico. Quasi inutile dire che questo approccio che vuole andare al cuore dell’architettura e, quindi essere al di fuori delle mode, dopo un po’, come accade alle mode, vada a noia. E quindi Eisenman sperimenti altri giochi sintattici. Lo fa lavorando con il computer e con immagini che variano al variare di parametri arbitrari. Oppure – in epoca di decostruttivismo – utilizzando sistemi di regole arbitrarie (per esempio riprese dalle logiche del dna) per ottenere la forma finale dell’edificio. Ma sempre in nome dell’autonomia, evitando di caricare l’edificio di contenuti eteronomi, cioè di significati che non siano quelli della pura composizione spaziale.
James Stirling
Un approccio molto diverso è quello di James Stirling che concepisce l’autonomia disciplinare come un articolato e complesso gioco di citazioni, riprese dalla storia dell’architettura. Non è, infatti, difficile nelle sue opere trovare riferimenti a Le Corbusier, al costruttivismo sovietico, all’architettura classica romana, al kitsch di Las Vegas e finanche a Mies van der Rohe. Il risultato può apparire, soprattutto nelle ultime opere, pasticciato ma, per chi ama la storia dell’architettura, si tratta sempre di palinsesti interessanti (direi poi che la La Neue Staatsgalerie di Stoccarda del 1984 è un capolavoro). Inutile sottolineare che l’approccio è opposto a quello di Eisenman: qui la dimensione sintattica è poco rilevante, mentre è la dimensione semantica ad essere dilatata sino a diventare ridondante. Segno di come, in nome dell’autonomia si possano fare cose tra loro molto diverse.
Giorgio Grassi
Il terzo personaggio è l’italiano Giorgio Grassi. Nel 1967 pubblica un libro dal titolo La costruzione logica dell’architettura. L’architettura, sostiene, deve cessare di essere eteronoma, e evitare di compromettersi con estetiche le cui forme esprimono valori sociologici, sociali, funzionali che non hanno niente a che fare con la sua tradizione. Per puntare su quanto la caratterizza come pura architettura. Il progettista opererà come un filosofo analitico con le proposizioni scientifiche, cioè per tautologie logiche, senza aggiungere niente di altro. L’architettura è, infatti, un incessante lavorare su se stessa, sui contenuti già individuati dalla propria tradizione. Per raggiungere l’obiettivo, Grassi deve risolvere un grosso problema: come fare riferimento alla storia della disciplina e nello stesso tempo privare questo riferimento della propria temporalità. Da qui la scelta di realizzare edifici che si rifanno genericamente a forme del passato e sono privi di decorazioni e di richiami a precisi momenti storici. Quasi come fantasmi, impongono la loro presenza temporale.
Aldo Rossi
Meno rigido è il quarto personaggio, Aldo Rossi. L’autonomia la si trova sapendo leggere la storia della città e, insieme, lavorando sulla memoria che di questa storia ha distillato gli elementi salienti. Da qui il recupero della Metafisica, sospesa tra realtà e immaginazione. Un approccio quindi diverso da quello del rigorista Giorgio Grassi che poco spazio lascia alla poesia e al ricordo. Capolavoro di Rossi è il Teatro del Mondo, una costruzione in legno che gira per la laguna di Venezia, in occasione della Biennale del 1980, e bene rappresenta questo vago rifarsi alla storia, questa nostalgia che tutti abbiamo per un passato che ricostruiamo poeticamente più che storicamente.

Autonomia ed eteronomia dell’architettura
A queste quattro posizioni potremmo aggiungerne numerose altre. Ma per giungere sempre alla conclusione che il fascino dell’autonomia risiede, nel suo essere vaga e inafferrabile, nella sua versatilità. Infatti ognuno può costruirsi la propria idea di autonomia, non importa se intellettualistica, citazionista, logico-analitica o metafisica. Così, sebbene sia stata messa da parte nel periodo decostruttivista, dopo aver raggiunto il suo apice negli Anni Settanta e Ottanta, l’ossessione per l’autonomia è ritornata in tempi recenti. Penso, per esempio, al lavoro teorico di Pier Vittorio Aureli che propone un’architettura assoluta. Mentre, recentemente, è stata promossa da Valerio Olgiati e Markus Breitschmid con il nome di Architettura non-referenziale (cfr. il libro del 2019, con lo stesso titolo). Non referenziale perché tutta interna a se stessa e priva di riferimenti extradisciplinari. Da qui un progettare che non ha velleità di raccontare e/o rappresentare il mondo esterno e evita le forme appariscenti dello star-system per concentrarsi su ciò che la caratterizza da sempre, cioè lo spazio. Sembrerebbe un’apertura alla proposta di Bruno Zevi di puntare sulla centralità dello spazio. In realtà, ne è l’antitesi perché per Valerio Olgiati e Markus Breitschmid l’architettura non-referenziale deve essere estranea alla vita che vi si svolge, per ricercare valori di assolutezza, di ordine e di a-temporalità, cioè il contrario dello spazio traboccante di vita auspicato da Zevi. Basta essere appena appena storicamente avvertiti, per vedere che queste rivendicazioni di purezza e di autonomia acquistano interesse in un momento storico come il nostro deluso culturalmente e politicamente, che vuole uscire da uno star system sempre più stanco, funzionale a una fase oramai conclusa della globalizzazione. Insomma l’autonomia appare come una reazione a fatti eteronomi. Non vorrei indispettire nessuno, ma l’interessante paradosso che ci si presenterebbe a questo punto è che studiando le poetiche dell’autonomia si scopre che, se non altro a livello di intenzionalità, non c’è niente di più eteronomo di queste.
Luigi Prestinenza Puglisi
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