Conversazioni di architettura. Spazio, struttura, linguaggio

La quinta Conversazione di Luigi Prestinenza Puglisi risale alle radici antiche dell’ordine architettonico classico, per poi raccontare le sette regole “invarianti” di Bruno Zevi

Nella terza conversazione abbiamo visto che Bruno Zevi con il libro Saper vedere l’architettura (1948) aveva affermato che è lo spazio interno che caratterizza l’architettura (la sua autonomia) rispetto ad altre discipline. E questo nonostante la difficoltà di includere all’interno del campo disciplinare manufatti che noi da sempre consideriamo tali, ma che non hanno una convincente spazialità interna. Ne è un esempio il tempio greco. Abbiamo inoltre notato come il concetto zeviano di spazio appaia più stimolante e più inclusivo di quello funzionalista, che vede l’edificio in termini puramente utilitaristici. Anche perché esso non impedisce un giudizio in tal senso. Ci sono – e ripetiamo questo concetto di Zevi perché particolarmente rivelante per capirne il pensiero – infiniti modi di leggere l’architettura: attraverso i valori economici, artistici, decorativi e, appunto, funzionali. Tutti hanno un loro interesse e devono essere considerati in sede critica, come lo sono i fatti politici ed economici nel momento in cui giudichiamo un romanzo storico o una poesia politicamente impegnata. Ma non sono questi ultimi che determinano la qualità architettonica dell’opera, esattamente come avviene con un romanzo che bene descrive un’epoca, o una poesia che aspira a un mondo migliore, non sono necessariamente capolavori della letteratura. È ovvio, inoltre, che i pieni contribuiscono a dare valore ai vuoti. Tuttavia, l’architettura è in primo luogo spazio interno. Ed è lo spazio interno che dà concretamente forma al Mondo.

L’architettura produttrice di spazi

Dare forma al Mondo vuol dire optare per alcuni spazi invece che altri. Operare una scelta di campo. Per Zevi, costruire l’architettura è un compito altamente etico e politico. Da qui l’idiosincrasia del critico romano per il classicismo, la simmetria, la retorica monumentale, visti come forme che negano i valori di libertà che dovrebbero essere alla base di ogni progetto. E l’attenzione per la sperimentazione, la ricerca, l’opera aperta, non come valori in sé e per sé, ma sempre finalizzati alla costruzione di un ambiente che “ci attrae, ci eleva, ci soggioga spiritualmente”.
Dicevamo che obiettivo dell’architettura è produrre spazi, quindi, in sostanza, forme che devono articolarsi seguendo una logica che le renda significative. Un po’ come le parole all’interno di una frase. Occorre, dunque, un codice, ossia un insieme di regole. Un codice sufficientemente elastico e non costrittivo, esattamente come avviene con il linguaggio verbale, che permette la massima libertà nel dire quel che vogliamo. È la tesi del libro Il linguaggio moderno dell’architettura, pubblicato da Zevi nel 1973.

Il linguaggio dell’architettura nell’antichità

A questo punto, occorre una digressione. Nel passato esisteva un linguaggio condiviso per l’architettura? E, se esisteva, come si articolava? E, soprattutto, perché cambiarlo? La risposta ce la dà un libro scritto nel 1963 da John Summerson, dal titolo Il linguaggio classico dell’architettura, un libro con il quale, a partire dalla scelta del titolo, Zevi si è confrontato.
Qual è la caratteristica che accomuna gli edifici classici? Sicuramente l’attenzione per la regolarità geometrica e per le proporzioni dei singoli componenti e dell’insieme. Lo scopo è realizzare composizioni che, attraverso semplici rapporti, per esempio nel modo in cui sono proporzionate e scandite le finestre o le colonne dei porticati, producano una sensazione armonica simile a quella musicale. L’armonia, però, è una condizione necessaria ma non sufficiente, nel senso che ci sono numerosi edifici, basati su rapporti armonici, che non definiremmo certo classici.
Per chiamarne uno così occorre che ci sia qualcosa di più e cioè l’utilizzo dell’ordine architettonico: tuscanico, dorico, ionico, corinzio o composito. Che l’edificio si ispiri a quei modelli greci o romani che tali ordini adoperarono, non importa se per organizzare spazi relativamente semplici, come con un piccolo tempio greco, o più complessi e articolati, come con le grandi terme romane. Perché, si chiede John Summerson, l’architettura del passato ha fatto un così largo uso dell’ordine architettonico? La risposta è: perché ha fornito un criterio insieme logico e matematico per mettere in relazione le singole parti della costruzione. Secondo i precetti dell’ordine architettonico, per esempio, la distanza tra due colonne equivale a un certo numero di diametri delle stesse, in modo da ottenere intercolunni visivamente equilibrati e staticamente solidi. E a un certo numero di diametri equivale l’altezza della colonna, dell’architrave e del timpano sovrastante. Grazie ad esso riusciamo quindi a individuare con chiarezza i rapporti dimensionali che legano tra loro strutture e ambienti. Inoltre, se tutte le misure sono multiple di un modulo base, basta fare due conti e avremo le dimensioni dell’intero edificio. E individueremo subito nell’insieme un senso soggiacente di ordine e regolarità. Ordine e regolarità sottolineati da elementi che a volte non hanno alcuna funzione se non visiva: si pensi, per esempio, alle paraste, che non sono altro che le proiezioni delle colonne suoi muri. Oppure ai fregi e alle cornici che sottolineano, legano o disarticolano piani e volumi.

Dall’ordine architettonico antico all’architettura contemporanea

Sebbene esistano molti tentativi di fissare, una volta per tutte, le regole che caratterizzano ciascuno dei cinque ordini architettonici, ogni architetto le ha interpretate liberamente, alla propria maniera. Con invenzioni a volte spiazzanti, come nel caso di Michelangelo o Borromini. Le regole dell’ordine architettonico sono, infatti, più flessibili di quelle del linguaggio verbale dove le invenzioni sono consentite sino a un certo punto. Anzi, possiamo dire che, proprio le libere interpretazioni dell’ordine architettonico, stravolgimenti sintattici compresi, ci consentono di capire la poetica dei singoli autori.
Torniamo a Zevi che, come abbiamo detto, è stato profondamente influenzato dalla lettura del saggio di Summerson. A questo punto, si pone la domanda: come è possibile pensare a un’architettura moderna, non classica, aderente agli imperativi etici della società contemporanea? Come è possibile praticare un codice che permetta di farci parlare il linguaggio dell’architettura e nello stesso tempo non sia castrante e impositivo? Prima di parlare della soluzione che egli dà al problema, occorre però fare una ulteriore premessa. Tra la fine degli Anni Sessanta e Settanta, critici e architetti sembrano ossessionati dal problema del linguaggio, probabilmente per il fatto che, nelle altre discipline, non si parla d’altro. La questione posta da Summerson nasce, insomma, all’interno di una linea di ricerca, per non dire una moda culturale, in quei tempi molto frequentata. Solo per citare gli italiani, Renato De Fusco, Umberto Eco, Emilio Garroni, Giovanni Klaus Koenig scrivono innumerevoli saggi sul linguaggio e l’architettura in cui introducono concetti nuovi e lʼuso di termini tecnici inconsueti per la disciplina, quali monemi, fonemi, choremi, lessemi…
Il testo di Zevi, sul Linguaggio moderno dell’architettura non è quindi solo una risposta a Summerson e al suo fortunato libro: è una presa di posizione rispetto a questi critici e alle loro teorie, certamente interessanti, ma spesso cervellotiche e fumose. Perché parlano dei massimi sistemi linguistici, ma alla fine propongono per l’architettura ben poche prospettive operative. Il problema, invece, per l’autore non è formale. È etico. Se si vuole parlare moderno occorre essere moderni. E il linguaggio deve essere libero di spaziare verso nuovi territori, non costretto da regole che lo vogliono statico e ripetitivo. Se regole vi devono essere, investiranno lʼatteggiamento che ha l’architetto verso il mondo e, solo in seconda battuta, la tecnica del discorso. Sette regole di libertà e, quindi, in un certo senso, sette antiregole che dicono più quello che non si deve fare, piuttosto che quello che si deve.

Le sette regole “invarianti” di Bruno Zevi

Zevi le chiama invarianti, per sottolineare il fatto che si ritrovano già applicate in tutte le migliori architetture che hanno inaugurato o accompagnato la nostra modernità.
Sono: elenco, asimmetria e dissonanze, tridimensionalità antiprospettica, sintassi della scomposizione quadridimensionale, strutture in aggetto, temporalità dello spazio, reintegrazione edificio-città-territorio.
Lʼelenco esprime lʼatteggiamento aperto dello sperimentatore che non accetta gli schemi mentali imposti da altri e ogni volta riesamina, enumerandoli, i termini del problema. Lʼasimmetria rende desuete le concezioni semplici e consolatorie dellʼordine, quali la simmetria bilaterale. La tridimensionalità antiprospettica e la scomposizione quadridimensionale implicano la volontà di rompere la scatola muraria e di acquisire nuove dimensioni spaziali e temporali. Le strutture in aggetto esprimono il bisogno di utilizzare le tecniche più sofisticate. La temporalità dello spazio è lʼaccettazione della finitezza umana e della sua dimensione storica. La reintegrazione edificio-città-territorio esprime il carattere insieme pubblico e ecologico dellʼatto progettuale.
Per quanto stimolanti, le sette invarianti zeviane non hanno avuto grande fortuna critica. Molti commentatori hanno, anzi, notato che è ben curioso scrivere delle regole per proporre un linguaggio anticlassico sostanzialmente senza regole: una contraddizione in termini. Un po’ come cercare di risolvere il paradosso del cretese che dice di mentire: se menti dici la verità, se dici la verità menti.

Lo Strutturalismo e Cesare Brandi

Torniamo a Summerson. Anche il suo saggio deve molto all’approccio strutturalista che negli Anni Sessanta e Settanta dilagava nelle università. Da qui l’idea che l’architettura classica, attraverso l’ordine architettonico, possa essere esaminata come una struttura in cui tutte le parti sono connesse tra loro secondo un ben individuabile sistema di relazioni.
Cosa succede, se l’idea di struttura rimane a prescindere dall’uso degli ordini architettonici? La domanda non è oziosa. In effetti la gran parte delle architetture che noi ammiriamo sono organizzate come degli organismi. Lo stesso Leonardo da Vinci parlava degli edifici come se fossero animali, cioè esseri in cui tutte le parti sono interconnesse secondo regole e proporzioni. Per esempio, la larghezza dell’uomo con le braccia aperte è pari all’altezza dalla punta dei piedi alla testa. E, se non lo fosse, per esempio fosse il doppio, avremmo un mostro con braccia sproporzionate.
Uno dei teorici più interessanti che fu fortemente influenzato dallo strutturalismo è stato l’italiano Cesare Brandi. Secondo questi, l’architettura può certamente essere interpretata da un punto di vista semiologico, cioè dal punto di vista dei significati che veicola. Infatti non è mai e in nessuna civiltà un atto gratuito, risponde sempre a bisogni individuali o collettivi e quindi “identificando un uso, lo significa”. Ogni opera identificherà una funzione e lo farà concatenando elementi architettonici che rassomiglieranno ai segni del linguaggio, e pertanto caratterizzati da una certa arbitrarietà. Ma, come mostra la storia dell’architettura, a bisogni simili ogni civiltà e cultura ha risposto con opere architettoniche dalle forme più diverse.
Il parallelo tra linguaggio e architettura, insomma, regge sino a un certo punto. L’essenza dell’architettura, oltretutto, non sta nella comunicazione: “la casa non comunica di essere casa, più che la rosa comunichi di essere una rosa”. L’aspetto rilevante da notare è però che la casa, il tempio, l’edificio termale, se aspirano ad essere opere d’arte, hanno una presenza, una loro essenza, una loro astanza che travalica l’aspetto funzionale. È proprio questa che rende un edificio, altrimenti banalmente utilitario, una realtà dotata di valore estetico. L’astanza riguarda il modo in cui l’opera si manifesta alla percezione dello spettatore, in quanto presenza unica e irripetibile, completa e compiuta.

Fondazione Prada. Photo: DesignerToparchitect
Fondazione Prada. Photo: DesignerToparchitect

L’opera architettonica come struttura

In questo senso, l’opera è una struttura di cui è possibile l’analisi, ma a condizione di azzerarne l’aspetto comunicativo.
Più precisamente, la struttura riguarda lo spazio, e cioè l’opposizione di interno e esterno. Lo spazio è l’interno che diventa esterno a sé stesso e l’esterno che diventa interno a sé stesso. Ove manchi questa articolazione fondamentale della forma architettonica, conclude Brandi, l’astanza dell’opera d’arte non si produrrà. Fine, dunque, di ogni discussione sulla centralità delle funzioni. Ma è possibile che l’architettura, per diventare opera d’arte, debba scegliere la pura struttura, cioè essere, alla resa dei conti, silenziosa invenzione spaziale? Per alcuni – lo abbiamo visto nella conversazione dedicata all’autonomia – è così. Basti pensare a Peter Eisenman. Sarebbe però un errore ritenere che un discorso così interessante come quello brandiamo si esaurisca in un gioco autorefenziale fatto di strutture mute, in cui ogni parte richiama l’altra senza implicare nulla se non il piacere del gioco per il gioco. Gran parte dell’architettura occidentale, e non solo quella che Summerson definisce come classica, risponde a principi unitari, è concepita cioè come organismo in cui tutte le parti sono relazionate tra loro. Si pensi, per tutte, alle opere di Wright, per esempio le Usonian home, in cui interno ed esterno si compenetrano generando una spazialità chiara ma allo stesso tempo gerarchica, complessa e articolata. Pensata per rispondere ai bisogni anche psicologici dell’utenza e funzionalmente risolta.
Architettura quindi come poetica della struttura spaziale. Del resto, lo stesso termine “architettura” si adopera metaforicamente quando si vuole significare un insieme di fatti tra loro logicamente connessi e articolati: architettura del pensiero, architettura di una organizzazione industriale, architettura di un racconto. Nella nostra testa, insomma, il concetto che un buon edificio sia di più che una semplice sommatoria di parti ce lo abbiamo ben chiaro.

Non tutta l’architettura è “struttura”

Quindi tutta la buona architettura è struttura? Ovviamente no. Come vi dicevo, le idee nel campo delle discipline artistiche sono massimamente conflittuali e volatili. E quindi ecco che, accettata una ipotesi teorica, si affacciano alla ribalta progettisti che cercano di sperimentare il contrario. Rem Koolhaas, per esempio, intuisce sin dai primi lavori che la poetica dell’elenco ha un potere dirompente nei confronti delle strutture. Permette, invece che lavorare per sintassi, di operare per paratassi, cioè per semplici accostamenti. Un po’ come succede nelle pagine dei quotidiani dove sono accostate in maniera quasi casuale notizie molto diverse. Cito Koolhaas perché molto famoso, ma prima di lui e dopo di lui sono numerosi gli architetti poco sensibili all’approccio strutturale che hanno rifiutato di dare aspetto coerente all’opera, a volte, penso al museo di Mendini a Groningen, lavorando a più mani, al fine di evitare scientemente un risultato unitario. Insomma, come dimostra la storia dell’architettura, non esiste una storia dell’architettura.
Nella prossima puntata cambieremo punto di vista e parleremo di critica. Di cosa oggi sia.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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