Conversazioni di architettura. Storia e linguaggio
Nella quarta lezione del ciclo di conversazione sull’architettura, Luigi Prestinenza Puglisi si concentra sull’importanza di ampliare la visione andando oltre le opere e le banalizzazioni per scoprire le intenzioni degli Autori

Nelle conversazioni precedenti abbiamo visto che l’architettura comunica, attraverso la fisicità dello spazio, anche a chi non è addetto ai lavori. Lo fa attraverso i sensi del corpo e in modo vago, un po’ come la musica che, infatti, abbiamo tirato in ballo. Ci chiediamo adesso se l’architettura non abbia un linguaggio strutturato e articolato attraverso il quale siano veicolati messaggi più precisi.
Prendiamo un’opera architettonica di Michelangelo, per esempio il ricetto della Laurenziana. L’opera comunica un senso di insofferenza per le regole dell’architettura rinascimentale e un uso, diciamo così, arbitrario dell’ordine architettonico. Notiamo inoltre che c’è una forte tensione plastica non diversa da quella delle sculture e degli affreschi dello stesso Autore. Notiamo che un sistema di valori è entrato in crisi e siamo portati a mettere tutto questo in relazione con il clima della Riforma e della Controriforma. Prendiamo adesso un’altra opera: Villa dall’Ava di Rem Koolhaas. La prima cosa che notiamo è la somiglianza di alcuni pezzi di questa casa con le opere puriste di Le Corbusier, in particolare Villa Savoye. In altre parti, completamente vetrate, il riferimento è diverso. Con un po’ di fatica, e forse aiutati dalle stesse descrizioni di Koolhaas, vediamo che in questo caso il riferimento è la glass house di Mies van per Rohe. Le diverse parti non si compongono però in maniera armonica, ma stridente con soluzioni d’angolo addirittura fastidiose: brusche interruzioni, contrasto di forme, materiali diversi. Villa dall’Ava si configura quindi come un’opera manierista, esasperatamente manierista che, per parlare, ricorre ampiamente alla citazione di capolavori a lei precedenti. Un po’ come le coeve opere post modern che, però, fanno operazioni simili con riferimenti a architetture classiche (colonne, timpani, finestre squadrate…) e non del Movimento Moderno. Segno questo che Koolhaas vuole indirizzare la sua riflessione verso la riscoperta, sia pure problematica, della modernità, che il Post Modern aveva, invece, evitato.
Fermiamoci qua. E notiamo che le due interpretazioni che abbiamo avanzato non si basano sull’immediatezza dei sensi, ma su ragionamenti che può fare solo chi possiede un minimo di conoscenza della storia dell’architettura e della storia dell’arte. Infatti presupponiamo che sappia cosa siano gli ordini architettonici, come siano usati nel Rinascimento, cosa significhi il termine Manierismo, che tipo di opere abbia dipinto e scolpito Michelangelo, e, per Koolhaas, che ruolo nell’architettura ebbero Le Corbusier e Mies van per Rohe, cosa rappresenti villa Savoye e casa Farnsworth, cosa sia il Post Modern e per quali motivi proprio in quegli anni sia entrato in crisi.
Per capire l’architettura occorre conoscere l’architettura
Da qui una considerazione che può apparire tautologica ma che in realtà non lo è: per capire l’architettura occorre conoscere l’architettura. Che un po’ è come dire che per conoscere il linguaggio, noi dobbiamo saperlo parlare. Infatti, come abbiamo visto nella conversazione precedente parlando di autonomia, noi non sappiamo cosa sia l’architettura in astratto ma solo attraverso le opere che nel tempo sono state considerate tali. E a queste opere noi attribuiamo i più diversi significati. Infatti le interpretazioni storiche sono numerose, tra loro molto diverse e cambiano nel tempo: si pensi solo alla differenza tra i modi di giudicare l’architettura di Palladio e Robert Venturi o alle interpretazioni opposte di Zevi e Tafuri.
Come si fa a fondare un ragionamento logico su un circolo ermeneutico così precario e che, oltretutto, non riusciamo nemmeno a chiudere? Appunto: non lo si fonda. Per preferirgli un atteggiamento prammatico, scaltro e disincantato.

Gli Autori e le loro interpretazioni
Fu Michelangelo l’artista geniale, contro corrente, innovatore, eroe della forma che noi abbiamo costruito? Perché no? Ma allo stesso tempo dobbiamo avere la consapevolezza che su di lui abbiamo letto troppi romanzi, per esempio quel bellissimo polpettone che è Il tormento e l’estasi di Irving Stone. E, soprattutto, che su Michelangelo si sono proiettate le aspettative dei critici che lo hanno trasformato nella figura dell’artista titano per eccellenza. Se è così, non possiamo evitare di chiederci quanto di questa visione eccessivamente romantica si sia trasmessa nella nostra interpretazione del ricetto della Laurenziana.
Nel caso di Koolhaas ci chiediamo quanto dell’interpretazione della sua opera deve al racconto, narcisista e zeppo di riferimenti storici, che lo stesso Koolhaas fa di se stesso nei suoi numerosi scritti.
E quindi? Quindi dobbiamo avere il sospetto che le nostre interpretazioni non sono mai pure, scevre dai preconcetti che noi proiettiamo nelle opere o nei personaggi che esaminiamo nelle nostre indagini.
Rimanendo sempre negli esempi di Michelangelo e di Koolhaas, notiamo che esiste su di loro una sterminata pubblicistica con tesi tra le più diverse. Michelangelo manierista, antimanierista, neoplatonico, autore profondamente religioso, genio laico, essenzialmente scultore, essenzialmente architetto, eretico… E così per Koolhaas: postmoderno, decostruttivista, funzionalista, abile venditore, architetto dello spazio tempo, discepolo di Ungers, discepolo di Natalini e Superstudio…
Insomma: ci troviamo di fronte a mille diverse e contraddittorie chiavi interpretative. Qualcuno ancora crede che ce ne sia una giusta e le altre siano sbagliate. Io penso, invece, che sia più utile e interessante arrivare alla conclusione che non c’è una unica chiave per leggere la storia e che di storie ne sono possibili molte e in continuo divenire. Dobbiamo, inoltre, avere coscienza che le nostre interpretazioni non solo convivono con altre ma sono soggette a mutare, alla luce di nuove ipotesi che certamente verranno e che, a loro volta, saranno superate.
Pensate a quanto sia cambiata l’idea di classicità greca quando abbiamo scoperto che questa era fondata più sulle interpretazioni del neoclassicismo tedesco che sulla poetica di Fidia o di Ictinio. Oppure quando abbiamo realizzato che la nostra interpretazione del Movimento Moderno era stata abilmente manipolata da Giedion e Gropius. O quando abbiamo scoperto che Le Corbusier era profondamente fascista e le sue idee urbanistiche rispecchiavano le idee della destra tecnocratica. O che l’interpretazione di Wright va depurata dal mito che Wright costruì di se stesso. Mito che fu amplificato dal coinvolgente ma poco credibile romanzo The Fountaihead di Ayn Rand e dalle non meno poetiche costruzioni critiche di Bruno Zevi. O che gli sprezzanti giudizi per Luigi Moretti che espressero Tafuri e Zevi vadano riconsiderati perché si trattava di valutazioni determinate non da fatti formali ma politici e cioè dalla sua dichiarata appartenenza al fascismo.
Architettura? Gli strumenti per ricostruire una storia contemporanea
A questo punto, potrebbe essere interessante una digressione per chiederci con quali strumenti (poco affidabili) si costruisce la storia contemporanea e, quindi, il modo in cui si interpretano gli eventi architettonici. Tre mi sembrano i più rilevanti ed efficienti. Sono i libri, le mostre e le riviste.
Sebbene di libri se ne leggano sempre di meno, è attraverso le loro pagine che passa la gran parte del ragionamento critico. Molte volte sono scritti dagli stessi architetti con ottimi risultati dal punto di vista della costruzione di nuove interpretazioni a loro volta necessarie per capire il pensiero architettonico dell’Autore. Pensiamo all’influsso che hanno avuto Verso un’architettura di Le Corbusier, L’architettura della città di Aldo Rossi, La costruzione logica dell’architettura di Giorgio Grassi, Complessità e contraddizioni in architettura di Robert Venturi, Delirious New York o SMLXL di Rem Koolhaas, Il progetto dell’autonomia di Pier Vittorio Aureli. O l’attenzione che hanno gli architetti nel pubblicare compendi delle loro opere accompagnati da interpretazione critica. Il fatto che critico e criticato coincidano (si pensi a Koolhaas o Le Corbusier che parlano di sé stessi) o che il critico sia pagato dal criticato (si pensi a … beh meglio non dirlo) la dice però lunga sulla loro presunta oggettività.
Vi sono, poi, le mostre, alcune decisive per lanciare nuovi fenomeni architettonici. Basta pensare all’importanza che hanno avuto la mostra sullo International Style del 1932, sui Five Architects of New York del 1969, la biennale di Venezia del 1980 dal titolo La presenza del Passato, la mostra Deconstructivist Architecture del 1988 solo per citarne alcune tra le più note. Mostre spesso accusate di banalizzare le ricerche architettoniche e di appiattire personaggi diversi all’interno di una stessa etichetta. E, difatti, per esempio, i decostruttivisti della mostra del 1988 hanno più volte dichiarato di non esserlo. Ma, poi, non hanno certo rifiutato i benefici della trovata comunicativa che li voleva accomunati sotto una stessa bandiera, facile da memorizzare e da apprezzare da parte di un vasto pubblico.
Vi sono, infine, le riviste, che nel passato decidevano chi esisteva e chi no. Cancelli invalicabili che hanno fatto la fortuna di coloro che ne possedevano le chiavi e la sfortuna di coloro che ne venivano esclusi. Intere pagine di architettura italiana, per esempio, ancora devono essere scritte per sopperire alla damnatio memoriae che le nostre testate principali, in primis Casabella e Domus, hanno operato nei confronti di alcuni progettisti. (Oggi le riviste sono diventate digitali e i cancelli sono caduti, dando vita a una nuova critica, non meno problematica, ma di questo fenomeno ne parleremo in seguito, a proposito della fine degli intermediari e della democratizzazione della critica).
La storia un puzzle di racconti diversi
Non la faccio lunga. Credo che quanto abbiamo notato basti a renderci ancora più sospettosi dei discorsi spacciati come oggettivi. E ci faccia vedere la storia come una competizione di racconti diversi, in cui si cimentano gruppi -se non fazioni- che, a volte sportivamente a volte in maniera scorretta, lottano per il primato, che può essere culturale e/o economico (incarichi professionali, posti ben remunerati…). In questo senso si suol dire che la storia la scrivono i vincitori, cioè coloro che hanno più mezzi: l’appoggio o il controllo delle accademie, delle case editrici, delle aule universitarie, dei finanziamenti pubblici, della presidenza di istituzioni quali la Triennale di Milano e la Biennale di Venezia. Personalmente, però, sono convinto che sia vero anche il contrario: la scrivono soprattutto gli sconfitti allo scopo di non mandare per perse le loro interpretazioni. Le quali, se muteranno le prospettive, diventeranno le nuove chiavi critiche per leggere l’architettura. Chi sta bene, notava Umberto Eco, scrive meno di chi è rabbioso e sta male.
Abbiamo a questo punto fatto un bel percorso ma non siamo andati lontani rispetto alla considerazione che per capire la storia occorre conoscere la storia. E che di un unico testo sono possibili numerose interpretazioni che provengono da una pluralità di analisi sociologiche, analisi simboliche, formali, funzionali, sintattiche, strutturali…
Adesso chiediamoci: ma dobbiamo considerarle proprio tutte? E, soprattutto, servono sempre? Tenderei a rispondere di no.
Prendiamo per esempio una libreria disegnata da Ettore Sottsass. vediamo subito che il suo scopo principale non è ospitare libri. L’obiettivo sembra, infatti, realizzare un mobile colorato che metta in discussione proprio il concetto modernista dell’utile, del mito che alla forma segue una funzione. A questo punto a che serve un’analisi funzionale di un contenitore che non ospita (abbastanza) libri e si propone come una scultura colorata? A nulla. Oppure, prendiamo una opera di Hannes Meyer, l’ultra funzionalista direttore della Bauhaus che criticava qualsiasi divagazione estetica in nome del rigore, dell’efficienza e della chiarezza della forma. Che senso ha fare un’analisi simbolica delle sue opere? Analisi che, invece, sarebbe criminale non fare per una chiesa rinascimentale, dove l’aspetto simbolico e matematico, come ha dimostrato Rudolf Wittkower con il suo splendido I principi architettonici dell’età dell’umanesimo, è dominante.
A costo di dire una banalità, una piramide egizia non è una scuola modernista, una chiesa non è un tempio greco, una piazza barocca non è un arengario.
Ogni Autore ha una propria chiave interpretativa
Non solo, ogni Autore si muove nel proprio mondo: non ha senso applicare le stesse chiavi di giudizio a Giorgio Grassi e a Frank Lloyd Wright, a Kazuyo Sejima e a Zaha Hadid, a Michelangelo e a Le Corbusier, a Borromini e a Fidia. A meno di non voler scoprire ovvie differenze, che però darei per scontate. Sembrerebbe, invece, più interessante cercare di capire ogni Autore all’interno del proprio universo poetico. Ovviamente, ciò non vuol dire che tutti gli universi poetici siano esteticamente interessanti e storicamente rilevanti. Serve solo a sottolineare il fatto che è all’Autore che spetta la prima mossa e mai all’interprete. Diceva Immanuel Kant: è il genio che dà la regola all’arte, intendendo che non esistono regole astratte e universali ma che i grandi architetti e artisti le riscrivono ogni volta.
Credere che esistano leggi interpretative generali è un grave errore anche per un altro motivo. È credere che esistano forme o segni che hanno sempre lo stesso significato, un po’ come avviene (e, sempre, sino a un certo punto) con le parole del linguaggio scientifico: due è sempre due. Non è mai così in architettura. Un quadrato può essere un motivo decorativo in Josef Hoffmann, oppure la pianta satura di valori simbolici di una severissima chiesa rinascimentale, oppure uno schema funzionale, oppure ancora un artificio minimalista. Una composizione simmetrica può alludere alla perfezione statica del mondo in un’architettura egizia, essere un modo funzionale di organizzare la carrozzeria di una vettura oppure un modo di gestire ordinatamente il dinamismo di una abitazione, come in alcune opere di Frank Lloyd Wright.
Per capire il testo serve il contesto
Per capire il testo, in altre parole, serve il contesto: capire cioè lo specifico sistema di relazioni che legano l’opera con se stessa e con il mondo esterno. Il contesto lo individua, ritagliandolo ogni volta in un modo diverso, l’Autore. Ogni Autore, quindi, potremmo dire, costruisce attraverso le opere la propria irripetibile prosa. Ovviamente, alcuni ci riescono, altri meno. Alcuni riescono addirittura a costruire poesia. Ma, per ottenere lo scopo e mostrare di essere unici (quasi) tutti non esitano a truccare le carte. Wright pre-datava i disegni, Neutra presentava come suoi i progetti fatti con Schindler, Mies nascondeva il contributo di Lilly Reich, Le Corbusier corteggiava i dittatori, Libera firmava il documento con il quale si espellevano gli architetti ebrei dall’Ordine professionale. Quasi tutti, inoltre, puntano sull’immagine più che su ciò che l’edificio è realmente, utilizzando concept non dissimili da quelli della persuasione pubblicitaria. Ecco il Bosco verticale, ecco il Vulcano Buono, ecco la Nuvola.
In questo modo, cioè lavorando sulla pura immagine, si possono evitare tanti ostacoli e veti connessi alla costruzione, ritagliandosi uno spazio del tutto virtuale -spesso la facciata- in cui mettere in scena i propri buoni propositi. E così edifici mediocri e di impianto tradizionale possono essere passati per efficienti e sperimentali grazie alla loro carrozzeria innovativa.
L’importanza delle biografie per capire l’architettura
Ecco, detto per inciso, perché le biografie degli architetti sono importanti e non puro gossip, come vorrebbero alcuni. Servono per aiutarci a scoprire le carte in tavola, a capire edifici e progettisti al di là di tutta la propaganda di cui si circondano.
In ogni caso, oggi, ogni architetto cerca di differenziarsi dagli altri proponendo una propria strategia. C’è chi, come Herzog & de Meuron o Koolhaas lavora sulle citazioni di interi brani dell’architettura moderna con un gioco inesauribile di riferimenti. Chi, come Steven Holl e Pert Zumthor, punta sul valore dell’esperienza tattile dello spazio. Chi, come lo studio Hadid, opera sul parametrico e cioè sulla dinamica della forma. Chi, come Gehry, sulla commistione tra scultura e architettura. Chi, come la Sejima, sull’innocenza. Chi, come Piano, sull’umanizzazione della tecnologia. Chi, come Fuksas, sulla energia del gesto. Chi, come Nouvel, sulla seduzione.
Chi come Big sulla pacificazione degli opposti. Pensare quindi che la globalizzazione abbia prodotto uniformità è un’idea per molti versi erronea. La storia dell’architettura produce, infatti, a ripetizione numerosi linguaggi che a loro volta servono a costruirne nuovi altri.
Linguaggi che trasformano l’architettura in un territorio sempre più articolato e complesso. Viene in mente una immagine del filosofo Ludwig Wittgenstein che paragonava il linguaggio verbale ai quartieri di una città: diversi l’uno dall’altro, la parte antica da quella medievale, la moderna da quella contemporanea. Voler applicare a tutte queste parti un unico criterio interpretativo non porta a nulla. La complessità della storia la si comprende solo percorrendola in lungo e in largo senza trascurare la diversità dei suoi percorsi e, ovviamente, la molteplicità delle sue interpretazioni.
Luigi Prestinenza Puglisi
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