Conversazioni di Architettura. Il bello, il brutto, il cattivo

Nella sesta conversazione di architettura Luigi Prestinenza affronta la questione del giudizio a partire da una riflessione su Kant e sulle categorie di bello, piacevole e funzionale

Anche se il funzionalismo, come abbiamo visto, non ha più ragione di essere, essendo legato a un modo oramai superato, meccanicista, di concepire il rapporto tra forma e funzione; non c’è, però, discussione sull’architettura dove la funzione non venga evocata. Soprattutto quando si cercano argomenti per criticare gli effetti speciali post decostruttivisti o le forme scultoree di Frank O.Gehry e di Zaha Hadid e dei loro emuli. Oppure, più recentemente, per giudicare i progetti parametrici o quelli generati dalla AI. Con discussioni interminabili dove si scontrano idee molto diverse sui confini dell’utile e del bello. Che vanno da chi sostiene che l’architettura non ha niente a che fare con l’arte, a chi pensa che solo la ricerca della bella forma caratterizzi la buona architettura rispetto alla banalità della semplice edilizia. Ma senza che ci sia mai una volta in cui si definisca cosa sia l’utile e cosa il bello. Definire cosa sia il bello è, in effetti, una impresa quasi disperata, ci hanno provato tutti i filosofi che si sono occupati di estetica da Alexander Gottlieb Baumgarten in poi, con risultati mai pienamente convincenti. E con un’unica certezza. Che il bello non è una qualità delle cose ma un giudizio espresso dal soggetto. 
Non si riflette mai abbastanza su questo punto. Il bello in sé e per sé non esiste, non è nelle cose, è nei nostri occhi. 

I giudizi sul bello

Il bello secondo Kant

Secondo Kant, però, questo non vuol dire che il bello sia soggettivo, legato a un gusto personale. Ha carattere universale. E difatti tutti dovremmo concordare sulla bellezza. Tanto che ci arrabbiamo quando questo non succede.
La spiegazione di Kant è che giudichiamo bello qualcosa quando la sua forma ci pone in una prospettiva finalistica e senza scopo o, per dirla in modo meno filosofico, ci fa contemplare il mondo nella sua gratuita trascendenza e perfezione. 

Il bello e il piacevole due categorie distinte

Per questa sua universalità, il bello pretende il consenso di tutti e si differenzia dal piacevole, che dipende dai sensi e ci lascia completa libertà di giudizio. Nessuno, infatti, ci criticherà mai perché preferiamo un cibo, un profumo, un suono e ne riteniamo altri sgradevoli. Invece, ci accaloriamo per un giudizio diverso dal nostro quando riguarda le forme di una sinfonia, un quadro, un’opera di architettura.
Riassumiamo: il bello è universale, il piacevole è soggettivo.

L’utile un metro oggettivo di giudizio

Vi è infine un altro tipo di giudizio, che va oltre il bello e il piacevole, e si esprime sulla perfezione dell’oggetto, cioè sulla sua capacità a raggiungere lo scopo prefissato. Quest’ultimo tipo di giudizio è del tutto oggettivo. Se un utensile è efficace ed efficiente, economico, leggero, lo si può verificare razionalmente con una discussione, supportata da dati e da fatti empirici, al termine della quale tutti non potranno che essere d’accordo. 

Il bello, il piacevole, l’utile tre parametri che possono convivere

I tre giudizi non si escludono tra loro: lo stesso oggetto può essere piacevole, bello, utile. Oppure solo bello o solo utile. Oppure bello e piacevole e non utile. Sono possibili, insomma, tutte le combinazioni. Da qui la confusione determinata dal fatto che nelle discussioni i tre tipi di giudizio possono essere confusi tra loro. Soprattutto gli ultimi due. Sostiene Kant: “vi sono due specie di bellezza: la bellezza libera (pulchritudo vaga) e la bellezza semplicemente aderente (pulchritudo adhaerens). La prima si dice bellezza (per sé stante) di questa o quella cosa; l’altra, essendo aderente a un concetto (bellezza condizionata), è attribuita ad oggetti, i quali stanno sotto il concetto di uno scopo particolare”.
Gli ornamenti fanno parte della bellezza libera, mentre un edificio ha una bellezza condizionata dal suo funzionamento. I primi quindi possono essere valutati solo con un giudizio puro di gusto, mentre il giudizio sul secondo presuppone un concetto di scopo, che determina ciò che la cosa deve essere, quindi un concetto della sua perfezione, del suo buon funzionamento. “Dove la purezza di questo giudizio è alterata dall’unione del buono con il bello”. Da qui, secondo Kant, le interminabili dispute tra chi valuta l’architettura sulla base di un puro giudizio di gusto, e cioè sulle semplici forme a prescindere da riflessioni sul funzionamento, e coloro che guardano lo scopo dell’oggetto. Nota il filosofo: “il giudizio puro di gusto si fa affascinare da forme complesse che stimolano la fantasia. Tutto ciò che è rigidamente regolare (che si avvicina alla regola matematica) ha in sé qualcosa di ripugnante per il gusto perché non permette di intrattenersi a lungo nella sua contemplazione; e se non ha per scopo la conoscenza o un determinato fine pratico, produce noia”. Mentre, invece, ama giocare con ciò che ci riesce sempre nuovo.

Il sublime: un ulteriore modalità di giudizio

É ovvio che Kant risenta del gusto barocco. Il problema è che comincia a captare anche quello romantico. E così si accorge che la tripartizione del giudizio di gusto non basta e che ci può essere una ulteriore modalità di giudizio che produce una peculiare sensazione estetica. È il sublime. Il sublime implica un dispiacere verso l’oggetto che ci spaventa e annichilisce. Bilanciato da un piacere verso noi stessi che, con la nostra razionalità, lo dominiamo. Accade con edifici le cui misure ci sovrastano ma che la nostra ragione riesce a possedere e con situazioni spaziali che, dopo Kant, sono diventate sempre più ricorrenti, tanto che possiamo dire che viviamo in un’epoca dove il sublime prevale sul bello.

Il bello? Un giudizio può essere puro oppure ibridato

A questo punto, sono possibili due atteggiamenti. Uno esclusivo, che consiste nella ricerca del bello puro, separandolo dal piacevole, dal buono, dal sublime per puntare a un estetismo sempre più rarefatto. L’altro consiste nell’ammettere che l’ibridazione tra giudizi diversi abbia una sua positiva validità e che, pertanto, dobbiamo dare per acquisito l’oscillare tra la pura soggettività del piacere personale e la pura oggettività del ben fatto, tra la pura valutazione del bello e la vertigine del sublime. Cioè accettare che dello stesso edificio si possano esprimere valutazioni formali molto diverse a seconda del punto di vista scelto. Punto di vista la cui posizione non è sempre possibile individuare, perché i confini tra il soggettivo del piacere, l’universale del bello, l’oggettivo del buono e il fascino del sublime sono evanescenti e precari.
Poniamoci adesso una domanda. Quanto conta il piacevole all’interno della triade del bello e dell’utile? Formati come siamo da estetiche rigorose e calviniste, saremmo tentati di rispondere: poco e nulla, perché la buona architettura va oltre l’arbitrario piacere dei sensi. La questione è, però, più complessa. Per svilupparla partiamo da una considerazione sul post modern.
Possiamo dire, senza paura di smentite, che l’architettura post modernista ha prodotto pochi capolavori inarrivabili. Ci meravigliamo, anzi, del suo successo durante gli anni Ottanta e del fatto che storici culturalmente scaltri e avveduti come Paolo Portoghesi o Charles Jencks abbiano potuto sostenere un approccio formale così confusionario e pasticcione. E lo abbiano fatto con dichiarazioni critiche spericolate. Penso, per esempio, ai capitoli nel libro I grandi architetti del Novecento dedicati da Portoghesi a personaggi che oggi faremo fatica a giudicare minori. Oppure al saggio di Jencks, Kings of Infinite Space in cui si mettevano insieme un gigante come Frank Lloyd Wright con Michael Graves. Oggi, se osserviamo il Portland Building di Graves, restiamo sbigottiti, quasi increduli che abbia potuto essere considerato un edificio importante. Lo stesso accade per molte altre opere, penso a quelle di Bob Venturi come la celebre Casa per la madre, lodata quando fu pubblicata, ma che oggi valutiamo più severamente. Si tratta di un fenomeno che in forma, sia pur meno eclatante, lo storico dell’architettura incontra periodicamente. A partire dal disgusto che gli architetti del rinascimento avevano per le opere gotiche che, dopo essere state amate, da un certo punto in poi non si apprezzano più oppure il disprezzo che il Movimento Moderno ha avuto per edifici notevoli dell’Ottocento. 

L’importanza dei mutamenti di gusto nella formulazione del giudizio di bello

Potremmo liquidare questo cambiamento di giudizio come un cambiamento di prospettiva critica. Un paradigma più raffinato si sostituisce a uno meno oppure, più semplicemente, il tempo ridimensiona gli entusiasmi. Ma, non è solo quello. Vi è un mutamento del gusto e del senso del piacevole, simile in tutto e per tutto a quelli che si registrano nel mondo della moda e dell’arte. Ci sono periodi in cui vanno le figure semplici e altre in cui prevale il dinamismo barocco; anni in cui preferiamo il bianco e nero e altri caratterizzati da colori sgargianti; momenti in cui ci piacciono le citazioni post moderniste e altre in cui ci vengono a noia. Se è così, c’è qualcosa che non torna nella nostra idea che nell’architettura siano importanti in primo luogo il bello e il ben fatto, la pulchritudo vaga e la pulchritudo adhaerens

Il giudizio oltre la categoria del bello

Se il giudizio fosse stato limitato al bello, cioè alla pulchritudo vaga, il Portland Building sarebbe apparso a noi esattamente come è apparso a Jencks quando ha scritto il suo libro; se il giudizio fosse stato sul ben fatto, cioè la pulchritudo adhaerens, non sarebbe mutato nel tempo, trattandosi di valutazioni oggettive anche se, ovviamente, relative alla conoscenza del momento in cui fu costruito. Non resta quindi che ammettere il fondamentale ruolo che esercita la piacevolezza che è certamente soggettiva ma anche legata alle periodiche e capricciose variazioni del gusto che condividiamo con buona parte dell’umanità, cioè della moda. Sul piacevole non si può disputare, ma si può tuttavia esprimere un giudizio (un giudizio razionale sul perché del nostro giudizio di piacevolezza). Ciò che scegliamo perché ci piace svela chi siamo e cosa vogliamo essere, come vogliamo apparire, come ci facciamo influenzare da chi ha interesse a commercializzare nuovi piaceri. Racconta il modo in cui annusiamo e, a volte, divoriamo il mondo, probabilmente in maniera più evidente e immediata di come lo racconta il nostro gusto per il bello e il ben fatto.

Torre di Rem Koolhaas, Foto Bas Princen. Courtesy Fondazione Prada.
Torre di Rem Koolhaas, Foto Bas Princen. Courtesy Fondazione Prada.

Il giudizio tra immediatezza dei sensi e l’intellettualizzazione del linguaggio

C’è un altro argomento che potrebbe essere interessante e vorrei trattare in conclusione. Nella prima conversazione abbiamo visto che l’architettura opera su due livelli: uno, dei sensi, che non presuppone conoscenze specifiche (e lavora sull’empatia) e l’altro, quello del linguaggio, che presuppone la conoscenza della storia della disciplina (e lavora sulla cultura disciplinare). Koolhaas o Eisenman difficilmente li afferri se non hai un buon bagaglio di conoscenze sull’argomento e, soprattutto, se non hai mai letto i loro testi teorici. Il giudizio di bellezza, in questo secondo caso, si sposta dall’oggetto all’operazione mentale che ha permesso di generare l’oggetto stesso. È un po’ quello che succede nell’arte dove il giudizio che diamo dell’orinatoio di Duchamp non è sull’orinatoio in sé e per sé, che sarebbe ben poca cosa, ma sull’idea che ha portato a ridefinire l’arte attraverso l’invenzione del ready made. Se ci piace l’orinatoio di Duchamp, infatti, non è perché abbia un qualsiasi interesse figurativo (tanto è vero che un orinatoio non lo apprezziamo esteticamente se lo incontriamo in un bagno pubblico) ma perché ci affascina il racconto che l’artista veicola attraverso di questo. Anche in architettura avviene qualcosa di simile. Siamo attratti dalla storia che sta dietro l’edificio più che dalla forma immediata dello stesso. Mi chiedo chi apprezzerebbe le soluzioni d’angolo di Koolhaas a Villa dall’Ava se non fosse influenzato da tutta la teoria, affascinante e anche modaiola, che ne è a fondamento. Penso anche al Brutalismo o a tutte quelle forme di architettura anti-graziose che piacciono agli architetti più che al vasto pubblico dei non addetti ai lavori. Forme che, per essere apprezzate, devono essere prima comprese attraverso un percorso che potremmo definire iniziatico (o anche attraverso una moda, come sta succedendo agli edifici in cemento, dopo il successo del film The Brutalist). 
Un vero guaio, perché trasforma l’architettura in un’arte che la gente ama poco perché ne ignora i codici e non la capisce. Un po’ come succede per l’arte contemporanea che è seguita e apprezzata da una ristretta cerchia di adepti. Ed è fatta oggetto di scherno e ironia da parte di chi non la comprende. (

Il concept: l’escamotage per palesare l’intenzione dietro la forma 

Gli architetti, soprattutto coloro che hanno patito gli anni bui delle avanguardie e la loro difficoltà nel comunicare con il pubblico, si sono però dimostrati più astuti degli artisti. E hanno inventato il concept. Cioè una facile metafora che sintetizza l’intenzione del progetto. Per esempio: il Bosco verticale, la Nuvola, il Vulcano buono. La metafora, come accade con tutte le immagini, può essere banale e fuorviante. Tuttavia ha il pregio di indirizzare l’attenzione dell’osservatore su alcuni aspetti che caratterizzano l’opera fornendo una sorta di prima chiave interpretativa. Un po’ come avveniva con gli affreschi delle chiese medievali che raccontavano anche agli analfabeti le storie dell’antico e del nuovo testamento. Ovviamente, oltre a questo livello essoterico, disponibile per tutti, possono essercene altri riservati a chi conosce meglio la disciplina e anche agli iniziati.
Il metodo sembra avere successo. E difatti non c’è opera oggi che non venga proposta al pubblico senza un concept che la spieghi.
Ricordo che, quando inaugurarono la Nuvola, gli amministratori del centro congressi cercarono di trovarle un altro nome, che ne pubblicizzasse meglio la funzione. Per giungere alla conclusione che sarebbe stato un errore farlo, perché l’immagine della Nuvola aveva già conquistato il pubblico che così riusciva a dare un senso all’opera.
Se una architettura la capisci l’apprezzi. Il giudizio sul bello non procede solo attraverso i sensi, passa attraverso la comunicazione. Anche se questo può voler dire banalizzare il messaggio.

La complessità di una filosofia del bello

Un’ultima osservazione. In questo periodo, caratterizzato dall’eccessivo estetismo – si pensi al vestire e al mangiare- anche l’architettura sembra soggiacere a una ricerca spasmodica del piacevole e del bello. Contro la quale, come succede sempre quando emerge una tendenza, si registrano allo stesso tempo prese di posizione contrarie. Proclamano che l’architettura più che ossessionata dal piacevole e dal bello debba essere interessante, risolutiva, sobria. Forse anche brutta, se in questo modo riusciamo a salvarla dalla banalità. 
È presto per parlare di fine dell’edonismo. Direi piuttosto che della triade kantiana (piacevole, bello, buono) si cerca di privilegiare la dimensione del buono, che, come abbiamo visto, si fonda su valori oggettivi e razionali. E che riesce a incorporare il brutto e trasformarlo in bello, cioè in una azione che ha valore estetico. Questo per dire quanto sia complessa una filosofia del bello. D’altra parte molte culture non conoscono differenze tra piacevole, bello e buono. Anche nel linguaggio. In Sicilia, per esempio, per dire che un cibo è buono, si dice che è bello. Un’elasticità questa che sarebbe un grave errore, in sede critica, non considerare.

Luigi Prestinenza Puglisi

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Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi

Luigi Prestinenza Puglisi (Catania 1956). Critico di architettura. Collabora abitualmente con Edilizia e territorio, The Plan, A10. E’ il direttore scientifico della rivista Compasses (www.compasses.ae) e della rivista on line presS/Tletter. E’ presidente dell’ Associazione Italiana di Architettura e Critica…

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