Coup de sac
Sempre e ovunque presenti nella nostra quotidianità, le buste di plastica sono l'ultimo simbolo della società globalizzata. Non più innocue protagoniste della nostra “spesa” quotidiana, negli anni hanno silenziosamente invaso ogni angolo del pianeta: dalla superficie degli oceani - il fenomeno del Pacific Trash Vortex né è la più drammatica testimonianza - alle contaminate vette dell’Himalaya.
La lieve ma diffusa esistenza nel mondo delle buste di plastica non è priva di conseguenze ambientali e culturali, ed è proprio su questi due aspetti che si è concentrata la mostra Would you like a bag with that? Plastic bags in art and design, allestita al Mudac di Losanna.
L’esposizione riuniva una trentina di opere di artisti e designer internazionali e – attraverso installazioni, fotografie, cortometraggi, dibattiti – metteva in evidenza le tante storie del sacchetto di plastica, rivelando come l’amata/odiata shopping bag possa diventare persino un oggetto di culto. Ne è un esempio il sacchetto di plastica di Baptiste Debombourg & David Marin, placcato oro 24 carati e provocatoriamente chiamato Marx, fusione fragile e impossibile del mondo del lusso e del banale; oppure la delicata scultura in alabastro e marmo di Andreas Blank. In altri casi le opere giocavano sulla contraddizione (i sacchi per la spazzatura in ceramica di Maude Schneider, un usa-e-getta fatto di materiale durevole) o sulla trasformazione (le buste di plastica convertite in gioielli da Verena Sieber-Fuchs, gli accessori di moda e i capi di abbigliamento di Jeremy Scott).
Tra le chicche in mostra, anche importanti pezzi storici e da collezioni private, quali la borsa di Joseph Beuys realizzata per l’installazione Büro für Direkte Demokratie durch Volksabstimmung alla Documenta del 1972, o le buste utilizzate da vari marchi di abbigliamento negli Anni Ottanta.
Insomma, dopo una mostra così, la busta di plastica ancora di più dividerà gli animi: packaging da collezione o spazzatura, da ammirare o disprezzare … a voi la scelta.
Sonia Pedrazzini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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