Giovani creativi si raccontano. Intervista a Studio Fludd
Il loro collettivo è nato nel 2008 e il loro nome si ispira a un famoso e eclettico alchimista. Composto da Matteo Baratto, Caterina Gabelli e Sara Maragotto, Studio Fludd è un gruppo di lavoro “diffuso” e impegnato su vari fronti, dal graphic design all’illustrazione fino alla progettazione di eventi.
Uno dei loro ultimi progetti è consistito nell’ideazione dell’impianto grafico della mostra Aldo Manuzio. Il rinascimento di Venezia, allestita fino alla fine di luglio alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Ma i loro molteplici e diversissimi interessi li hanno portati anche al Mart di Rovereto, alla Triennale di Milano e pure oltreconfine, da Bruxelles a Montréal.
Sara Maragotto, una delle tre voci che compongono Studio Fludd insieme a Matteo Baratto e Caterina Gabelli, ci ha raccontato spirito e progetti di un gruppo allergico ai confini, geografici e disciplinari.
Il vostro collettivo esiste da otto anni. Dove e come inizia la storia di Studio Fludd?
Studio Fludd ha iniziato le sue attività gradualmente e “naturalmente”, a partire da amicizie e affinità elettive durante gli studi. Con Matteo ci conosciamo addirittura dai tempi del Liceo, Caterina invece l’ho incontrata all’Accademia di Belle Arti di Venezia. La spinta a unire forze e sensibilità nasce da un’insoddisfazione per lo scenario visivo e creativo nel quale ci trovavamo.
Vi descrivete come un collettivo multidisciplinare, ispirato all’alchimia. Qual è il senso profondo di questa definizione?
Siamo affascinati dall’alchimia in quanto atteggiamento – che si dispiega lungo la storia dell’umanità in accezioni, periodi e culture diversissimi. Per noi la metafora alchemica sta per la tensione a semplificare e codificare esperienze complesse, la ricerca incessante di una sostanza preziosa che trasforma chi la “cucina”, attraverso un lavorio materiale e innumerevoli esperimenti. Vuol dire, più concretamente, privilegiare un atteggiamento di ricerca e sperimentazione rispetto al portare avanti uno stile o delle formule sensate dal punto di vista commerciale.
Grafica, design, illustrazione, progettazione di eventi, workshop… i vostri ambiti di intervento sono molteplici. Come scegliete e sviluppate, di volta in volta, i progetti di cui occuparvi? Esiste un legame alchemico, appunto, fra questi campi di interesse?
Le occasioni e le intenzioni si intrecciano di volta in volta in maniera organica, un progetto sfuma nell’altro – ovviamente soprattutto per quanto riguarda quelli personali. Da parte nostra c’è sempre massima apertura alle occasioni, agli incontri, assecondando curiosità più che strategie.
Tutto è assolutamente unificato dallo stesso atteggiamento progettuale, la sfida è comunicarlo (al momento stiamo ripensando completamente il nostro sito web in questa direzione).
Il vostro stile è caratterizzato da una giocosità diffusa e da un linguaggio che sembra rispondere agli input più attuali. Com’è stato prendere parte alla realizzazione di una mostra dedicata a un grande protagonista del Rinascimento quale Aldo Manuzio, allestita alle Gallerie dell’Accademia di Venezia?
È stata un’avventura incredibile, assolutamente tra i progetti più complessi che abbiamo mai affrontato. Le immagini antiche, la cultura del libro, la storia di Venezia sono tra gli ambiti che più ci interessano, quindi ci siamo sentiti molto coinvolti da subito, desiderosi di dare una nostra visione in un contesto prestigioso ma tendenzialmente conservatore per vocazione. Abbiamo affrontato le sfide e richieste progettuali alla nostra maniera: cercando di entrare tra le pagine dell’Hypnerotomachia Poliphili, nella sua bellezza, estraneità e attualità (il progetto dell’installazione-labirinto per mostrare “il più bel libro del Rinascimento” è stato il primo fattore analizzato).
Un altro aspetto rilevante e delicato è stato il lavoro sul colore, da sempre per noi un tema prioritario e imprescindibile. Abbiamo cercato di restituire un’idea di “Venezia ideale”, partendo dai suoi marmi e marmorini e idealizzandoli in una palette molto rigorosa, composta da toni molto chiari, dall’effetto cangiante a seconda degli accostamenti e dell’illuminazione. Il progetto grafico ha assunto un carattere quanto più leggero e asciutto possibile, anche per evitare di mettersi in imbarazzante concorrenza con la qualità tipografica degli originali in mostra.
Il tutto non senza una punta di ironia, ma sempre strettamente al servizio delle opere esposte. Possiamo dire di aver imparato molto, trovandoci in un team con professionisti di prima qualità. Ringraziamo per la fiducia chi ce l’ha accordata. Sarebbe interessante fare altre esperienze in questa direzione di dialogo con l’arte del passato.
Restando in tema di figure di riferimento: a quali modelli (artisti, grafici, architetti…) vi ispirate?
Le cose più varie, tanto più essendo tre persone, e molto diverse. Molta arte antica, iconografie medievali, arte folk, vintage. Nel contemporaneo apprezziamo molto l’approccio nordeuropeo: Sarah Illenberger, Raw Colours, Jockgm Nordstrom, la selezione dell’agenzia Hugo&Marie, Studio Swine, Sigrid Calon, Formafantasma. Naturale sintonia con gli eclettici: Bruno Munari, Giò Ponti, Nathalie Du Pasquier. Altri: Luigi Ghirri, Giorgio Morandi, Alvar Aalto, Paul Klee, probabilmente sto dimenticandone di fondamentali… Vediamo veramente di tutto.
Se siete curiosi, sui nostri social network siamo piuttosto assidui nel condividere i nostri input quotidiani.
In passato vi siete misurati anche con il contesto internazionale. Quali differenze d’approccio alla grafica e al design avete riscontrato all’estero rispetto all’Italia?
In Italia siamo più solidi, anche dal punto di vista della formazione, e in qualche modo fortificati dal contesto avverso. Spesso creativamente più frenati, meno ambiziosi e meno a nostro agio con il contemporaneo. Probabilmente ci facciamo troppi scrupoli, abbiamo nella cultura una maggiore tensione verso l’armonia visiva che appiattisce un po’ gli esiti.
Sicuramente altrove c’è maggiore serietà nel considerare la professione artistica e creativa, ciascuno fa un po’ di più il suo lavoro, rispettando quello altrui. Difficile dare torto ai molti di noi che partono e si fermano altrove.
Fate base in tre città diverse e dunque godete di una visuale piuttosto ampia. Qual è, a vostro parere, lo stato di salute della giovane creatività italiana?
Non è concretamente valorizzata e supportata nella sua crescita. Detto ciò, abbiamo molta fiducia nei nostri coetanei: ci siamo affacciati alla professione durante una congiuntura economica avversa, senza grossi riferimenti né modelli edificanti. Soffriamo la fame, la frammentazione e parecchi dilemmi geografici. Dobbiamo essere più coraggiosi e più responsabilizzati. Insomma in Italia c’è tanto e tutto da scoprire, ma piuttosto moderato e a tratti noioso.
Quale peso ha l’interazione con il pubblico nell’economia del vostro lavoro?
Non saprei esattamente. Il fatto di fare le cose all’interno di un gruppo ci ha fatto sviluppare poco questa consapevolezza, forse. I progetti di massima interazione sono state le due edizioni dell’evento di arte pubblica veneziana Fondamenta e i “banchetti alchemici” di Gelatology, in collaborazione con la cucina di Dapes. In questi casi abbiamo progettato gli eventi in quasi tutti i loro aspetti, cercando di creare le condizioni per un coinvolgimento diretto e libero dei partecipanti.
Negli ultimi tempi abbiamo avuto occasione di sviluppare ulteriormente la dimensione di educazione visiva con workshop per adulti e bambini in contesti quali il Mart di Rovereto, Camera – Centro italiano per la fotografia e IED, a Torino. Quindi possiamo dire che questo peso è in netta crescita.
Si parla molto di “buone pratiche”. Quali sono le pratiche davvero buone, secondo voi?
Fare, buttarsi. Ma prendersi anche il tempo per ricercare e maturare. Viaggiare e mettersi in contesti estranei, periferici, inesplorati, per costringersi a tirar fuori risorse personali inedite. Tutto ciò che vada nella direzione di coltivare una visione personale e una voce coraggiosa.
Arianna Testino
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