La verità, vi prego, sul design. Conversazione con Enrico Baleri
Designer, imprenditore, comunicatore, affabulatore, design influencer, il fondatore di Alias e Baleri Italia mostra i suoi molti volti e infila le sue “perline” in una collana che racconta una storia lunga quanto quella del progetto italiano. Abbiamo parlato con lui del suo libro, del suo esperimento con i social network e del futuro del sistema-design, tra bulimie fieristiche e rincorsa al nome “che tira”.
In principio fu il progetto di un libro di memorie, racconti di design e di vita narrati dal punto di vista privilegiato di chi ha fatto parte della storia del progetto italiano e condiviso un tratto di strada con tanti dei suoi protagonisti. Poi vennero le Perline, un fortunato diario pubblico a puntate a mezzo Facebook che ha trasformato Enrico Baleri (Albino, Bergamo, 1942), fondatore di marchi storici come Alias e Baleri Italia, dal 2004 alla guida di un Centro Ricerche che porta il suo nome, in un vero e proprio influencer. Una sorta di opera aperta, in divenire, esposta agli interventi di un pubblico di più di tremila follower, che alla fine si è cristallizzata nuovamente nella forma di un libro.
Giuro – 1 è appena uscito per Silvana Editoriale, e già nel titolo porta impresso il gusto del suo autore per l’autenticità. Dentro ci sono gli incontri, in circostanze talvolta surreali, con personaggi del presente e del passato, da Bob Dylan a Demetrio Stratos, da Salvador Dalí a Lucio Fontana, da Andy Warhol a Bernie Ecclestone. Aneddoti gustosi sulla nascita di alcuni prodotti-icona (la poltrona Proust, volendo citare soltanto un esempio, sarebbe nata per caso, quando Alessandro Mendini, mentre spiegava il puntinismo ai suoi collaboratori con l’ausilio di un proiettore, proiettò per errore un’opera di Signac sul tessuto di una poltrona bianca) si affiancano a istantanee di una Milano d’antan oggi scomparsa, dalla birreria Splügen Bräu di Corso Europa con gli interni dei fratelli Castiglioni agli studi dei molti artisti frequentati nel corso degli anni. Ci sono, soprattutto, riflessioni sull’evoluzione del gusto e sulla qualità estetica del mondo che ci circonda, che hanno fornito lo spunto per una chiacchierata sui destini del design italiano. Abbiamo incontrato l’autore all’esterno della sua casa sui colli di Bergamo, all’ombra di un caco in piena esplosione autunnale con “quei frutti arancio che copiano Hermès, tra le foglie verdi”, con vista sulla valle e sul convento di Astino, oggetto di numerose perline a causa di un discusso restauro e di un utilizzo secondo lui improprio.
Giuro ha una storia particolare: c’è un primo movimento dalla carta al web, a Facebook, e poi si torna alla forma libro. Perché?
Anni fa ho cominciato a dettare alcune delle storie che sono poi confluite nel libro a un liceale, amico di mia figlia, che scriveva in modo autenticamente alternativo. Nonostante non sapesse nulla di design e non conoscesse il mio ambiente, gli ho raccontato esperienze legate al mio lavoro, incontri che sono stati importanti per me, e anche qualche aneddoto più leggero, come quello in cui mia zia suora guida la Porsche ad alta velocità. Il risultato è un testo che non ho voluto pubblicare perché non mi andava di mettermi “in piazza”. Qualche anno dopo, il mio nipotino Enea mi insegna a usare lo smartphone, comincio a giocare e a chattare e poi scopro Facebook. Nel frattempo la scrittura era diventata una piacevole abitudine, quindi ho cominciato a condividere le mie storie. Il pubblico ha risposto con entusiasmo, molti lettori e amici mi hanno chiesto di raccogliere le mie perline in un volume e così siamo tornati al libro, che nelle mie intenzioni, è il primo di una serie di quattro, già pronti nei testi e nelle immagini.
Secondo alcuni i social network sarebbero il regno del rumore, Umberto Eco disse perfino che avevano dato “diritto di parola a legioni di imbecilli”. Lei ci dimostra che è possibile usarli per parlare di design. Qual è la sua esperienza?
Credo che Facebook sia invece un mezzo straordinario, un vero social se usato in modo serio e coerente. Naturalmente c’è narcisismo, c’è esibizione, voglia di raccontarsi, ma fa parte del gioco. Sono seguito da adulti ma anche da ragazzini di sedici anni, perché l’insegnante legge loro le mie perline in classe la mattina. Nei commenti nascono spesso discussioni curiose, viene fuori una critica provocatoria e costruttiva che raramente potrebbe emergere in luoghi più istituzionali come le pagine di una rivista. Per me è anche un esercizio di verità, se dico il falso posso essere sconfessato immediatamente.
In una perlina dedicata al Salone del Mobile scrive: “Tutto un mondo borghese pensato per arredatori, scomparsi gli architetti”. Crede che oggi la forma sia troppo presente rispetto alla funzione?
Quella frase non è casuale come potrebbe sembrare, al contrario nasce da una seria riflessione. Gli architetti stanno scomparendo dai padiglioni del Salone anche per colpa della congiuntura economica. C’è stata una forte contrazione dei consumi, pochi ormai chiedono aiuto a un architetto per arredarsi la casa. Per superare questo problema, alcuni hanno cominciato a disegnarsi i prodotti da sé. Più in generale, credo che il Salone sia destinato a implodere: è troppo costoso, faticoso e dispersivo, è sempre più difficile trovare qualcosa di nuovo in mezzo a troppe proposte. Il gioco diventa sempre più complicato e i costi non valgono forse i risultati. Per me l’autenticità è molto importante, è da lì che nasce l’architettura. Quando parlo di forma e funzione ai miei studenti uso la metafora del dovere e del piacere, dico “pensa prima a dovere, se il dovere funziona potrai dedicarti al piacere, che esce quasi in automatico”. Le macchine immaginarie di Leonardo da Vinci non erano fatte per essere belle ma per essere funzionali. Eppure sono bellissime. Sono d’accordo con Maldonado quando dice che non bisognerebbe progettare conversational pieces, oggetti che fanno parlare di sé, perché il vero design è silenzioso, altrimenti ha vita breve come la moda, l’obsolescenza lo distrugge. Molti oggetti di oggi parlano veramente troppo.
Crede che l’identità del design italiano sia a rischio?
Il design italiano nasce da un incontro fortunato, quello tra una generazione di designer influenzati da nuovi linguaggi, che derivavano loro da esperienze americane e scandinave, e imprenditori illuminati che hanno permesso loro di disegnare prodotti che diventeranno vere icone. Queste aziende – penso a Kartell, che conosco bene perché le ho dedicato una tesi, ma anche a Cassina, a Flos, a Knoll e a tante altre – dovrebbero cercare di non perdere la credibilità acquisita nel corso degli anni passati. In una situazione come quella attuale, che è di grande incertezza economica, le aziende storiche si trovano a inseguire le mode, i grandi nomi che “tirano”. Credo che oggi il design italiano sia già abbastanza contaminato e influenzato dalle mode e dal kitsch.
Esiste ancora la figura dell’imprenditore “colto”?
Come dico spesso, il design è un fatto di coppia. Ci sono due figure, il designer e l’imprenditore ed entrambi sono indispensabili se si vuole dare alla luce un progetto, un nuovo prodotto. Il designer è chi ha l’idea, l’imprenditore è il depositario dell’identità dell’impresa, in grado di capire se un progetto è corretto e coerente, se può entrare nel catalogo della sua collezione. Deve conoscere la storia del progetto, le tecnologie produttive compatibili anche da un punto di vista tecnico. Credo che oggi ci siano molti designer di qualità, anche giovani, ma che i veri imprenditori stiano scomparendo per fare spazio a manager preoccupati prima di tutto del fatturato, ai fondi di investimento che vogliono profitti immediati, che si affidano solo a designer di chiara fama che funzionano sui giornali, dal nome famoso, meglio se straniero e impronunciabile. È la grande caccia ai profitti immediati, poco senso della storia delle tradizioni e del passato. Nessun interesse all’anima dei prodotti, ma alle loro qualità speculative a breve termine.
Secondo lei si sente la mancanza di un archivio che raccolga la memoria storica del design?
Moltissimo. Navighiamo a vista usando Internet che è l’unica risorsa ma è spesso ricca di inesattezze. Il problema è da sempre lo stesso: chi mette le risorse necessarie? La creatività e il progetto industriale rappresentano una parte importante del fatturato italiano ma non mi sembra venga considerata una priorità. Volendo raccogliere risorse private, ci si scontra fatalmente con una mentalità “di bottega”. Anni fa ho provato a organizzare per ADI, l’associazione di cui ero parte, una mostra che fosse rappresentativa del design italiano itinerante nel mondo per rappresentare il Made in Italy e doveva chiamarsi Va’ pensiero: ho incontrato molte difficoltà, ognuno degli sponsor voleva imporre i prodotti da lui scelti in cambio del contributo versato, e quindi ho abbandonato il progetto, perché veniva privato della necessaria obiettività.
Chi la incuriosisce tra i designer di oggi? Quale azienda le sembra degna di nota?
I designer interessanti oggi sono molti, c’è l’imbarazzo della scelta, ma vanno educati alle logiche imprenditoriali, ai doveri del marketing internazionale, ai principi della storia, alle tradizioni, ai processi tecnologici, alla ricerca della bellezza e della sorpresa nel progetto, fatte salve le sue funzioni prioritarie. Il prodotto è sempre e comunque a servizio dell’uomo. Quali sono gli imprenditori italiani oggi che conoscono queste regole e sono capaci di trasferirle? Si contano sulle dita di una mano, ma forse sto esagerando?
Giulia Marani
Enrico Baleri – GIURO – 1
Silvana Editoriale, Milano 2016
Pagg. 304, € 25
ISBN 9788836634897
www.silvanaeditoriale.it
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