Post-capitalismi. Ecco chi disegna la politica al Salone del Mobile
Vera e propria agorà contemporanea, il Fuori Salone non può evitare di imbastire un discorso sul reale. Dal declino del capitalismo ai muri di Donald Trump, dalle proteste di piazza ai nuovi nomadismi digitali, vi proponiamo un tour d’horizon sulle tensioni politiche che animano la Design Week.
“Il Design è uno stato a sé. E Milano è la sua capitale”, recita lo slogan della 56esima edizione del Salone del Mobile. Se la progettazione è per sua natura un atto politico – un modo per dare forma al reale, disegnando non soltanto gli oggetti ma anche le nostre interazioni con essi, “un atto cosciente e intuitivo per imporre un ordine significativo”, per dirla con Victor Papanek – la capitale di quel bizzarro paese senza confini fisici che è il design non può esimersi, nel momento in cui celebra se stessa, dal gettare uno sguardo sul mondo.
Dalla smaterializzazione del tessuto produttivo, con la complicità della rivoluzione digitale, alle nuove forme di manifestazione e di protesta, dalla crisi dei migranti in Europa ai muri di Donald Trump, i cambiamenti sociali e le emergenze del nostro tempo si invitano in diversi settori nevralgici del Fuori Salone, stimolando la riflessione sulla portata sociale e antropologica del design. Spesso sollecitata, e non sarà certo un caso, da designer giovanissimi, sovente sotto i trent’anni.
ADDIO CAPITALISMO
Alla Cascina Cuccagna il collettivo under 30 Raumplan – il nome vi ricorda Adolf Loos? –mette in scena una festa d’addio al capitalismo che ha come convitati, di plastica e alluminio più che di pietra, una serie di prodotti iconici delle Trente Glorieuses (1945-75). A oggetti tipici dell’età dell’oro del benessere industriale come le macchine da scrivere Olivetti, frutti di un capitalismo “illuminato” la cui fortuna dipendeva sostanzialmente dalla qualità, rispondono i loro successori contemporanei, figli della crisi e di nuovi modelli di business.
L’ipotesi distopica di un declino del modello economico basato sulla produzione e sul capitale, al centro della mostra Capitalism is Over, è insieme una parodia e un pretesto per parlare di come stiano cambiando i modi di produzione del design. La goliardia nasconde un discorso serio: in un contesto globale nel quale i rapporti economici si riconfigurano secondo modalità che evolvono di continuo, il mercato appare sempre più polarizzato tra nicchie iperspecifiche – nel design di prodotto, per esempio, quella dei makers – e giganti della produzione e distribuzione che non mettono più al centro del loro lavoro l’oggetto, ma la logistica e le reti.
EMERGENZE E UTOPIE
Neppure la mondana Zona Tortona è estranea al discorso sul reale. Tra gli highlight del progetto espositivo di BASE c’è l’installazione di raumlabor che riflette sulle forme di manifestazione e protesta nell’arena pubblica. Nella loro Forms of Turmoil, a metà strada fra laboratorio e performance, gli architetti berlinesi che “amano le grandi idee degli Anni Sessanta e Settanta e l’ottimismo inerente al cambiare il mondo con un tratto di penna” mettono a disposizione di diversi gruppi di attivisti locali una serie di manifesti gonfiabili su cui scrivere le loro richieste.
All’interno della mostra Design Nomade, risultato di una call internazionale sviluppata dal team del nuovo spazio culturale di via Bergognone con le suggestioni di Stefano Mirti, due designer emergenti reagiscono, in modi diversi e complementari, all’emergenza dei migranti. Il booklet di Marta Monge, A comprehensive guide to Illegal Border Crossings, si presenta come una guida tascabile per persone che si accingono a oltrepassare illegalmente un confine altrimenti invalicabile, mentre lo zaino Motherpack di Pietro Quintino Sella ha molte funzioni – tenda, sacco a pelo, sacca per trasportare vestiti ed effetti personali – ed è pensato per fornire a chi si trova senza un tetto il riparo e il calore che una madre dona istintivamente al proprio figlio.
DAL DESIGN NOMADE ALLE LINGUE DEL DESIGN
Se la situazione di rifugiati e senzatetto è un catalizzatore potente per la creatività dei designer, altri tipi di nomadi contemporanei, senza dubbio più fortunati, rappresentano il core della mostra. Si tratta dei moderni flâneurs, nomadi digitali che girano il mondo lavorando ovunque grazie a Internet, freelance che adeguano il loro stile di vita ai cambiamenti sociali in atto e abbracciano la crescente fluidità di luoghi e orari di lavoro. Le soluzioni per rendergli la vita più semplice sono molteplici e su scale diverse: si va dal kit di ispirazione giapponese di Gerardo Osio alla casa portatile di Elena Bompani, passando per l’hotel pop-up immaginato da Emmy Polkamp per ospitare viaggiatori in luoghi abbandonati o ex-industriali.
Siccome il design, oltre che nomade, è anche multiculturale, il collettivo olandese Connecting The Dots e la Scuola Civica Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli si interessano alla capacità dei progettisti di “parlare” diverse lingue, ognuna dotata di una propria grammatica, con una mostra che accoglie oltre cinquanta studi di design internazionali. L’idea alla base del progetto è che il prodotto finale, anche quando non è artigianale ma è stato realizzato in serie, dice molto sulla cultura del Paese che lo ha partorito. Un ritorno, forse inevitabile visti i tempi, a un’era di nuovi localismi e nazionalismi?
– Giulia Marani
Via Cuccagna 2/4
www.cuccagna.org
Via Bergognone 34
www.base.milano.it
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36 – Speciale Design
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