Design in fiera. La nuova Operae di Torino
Durante la prima settimana di novembre l’ottava edizione di Operae si sposterà dal centro città verso la nuova sede al Lingotto Fiere di Torino, già casa di Artissima. La curatrice per il 2017 è Alice Stori Liechtenstein, fondatrice dello Schloss Hollenegg for Design.
Giunge all’ottava edizione Operæ. Independent design fair, la fiera torinese dedicata al design indipendente e da collezione. Ispirata dal titolo Why Design, la rassegna si svolgerà dal 3 al 5 novembre presso il Lingotto Fiere di Torino. Abbandonati gli antichi palazzi delle scorse edizioni, Operae si ripresenta con due sezioni dedicate a designer e gallerie di design (il bando per le candidature, già aperto, scade il 22 settembre). A raccogliere e valutare le proposte è Alice Stori Liechtenstein (Milano, 1978) curatrice ed exhibition designer.
Dopo gli studi in architettura e design tra Italia e Spagna, lavora alcuni anni a Milano per poi trasferirsi a Graz, in Austria, dove fonda lo studio di design Storialab. Dal 2015 è fondatrice dello Schloss Hollenegg for Design, un progetto che supporta la cultura del design offrendo una piattaforma espositiva e un programma di residenza per designer under 35, fondato nel castello di Hollenegg, dove la curatrice vive con il marito e i loro tre figli.
Questa nuova edizione di Operae, ci ha raccontato Stori Liechtenstein, propone “una più aperta lettura del design: il design che abbatte le barriere, che confonde i confini; il design che rivendica senza timore il suo ruolo di ponte tra le arti e le scienze”. Ancora, il design come potente espressione di valori contemporanei, con un forte messaggio concettuale e una bellezza intrinseca. Il design ha acquisito un importante ruolo semantico: quello di lente attraverso la quale leggere la nostra società.
È la prima volta che una curatrice “straniera” si occupa di Operae. Quale visione hai rispetto al design contemporaneo in Italia?
La mia formazione è italiana, come le mie origini. Ormai, sono talmente tanti anni che vivo all’estero che, in un certo senso, sono un po’ straniera. Quando io studiavo, alla fine degli Anni Novanta, il design era estremamente legato ai grandi maestri, come Branzi, Mendini, Sottsass, De Lucchi, Mari, i quali erano ancora attivi e per quella generazione che veniva subito dopo di loro è stato davvero difficile emanciparsi. Ancora oggi, nell’ambito del design italiano, sono ben presenti le grandi figure storiche, mentre a seguire risulta delineato una sorta di vuoto, una generazione perduta. Solo ora riesco a osservare reali novità, che trasformano il loro distacco in grande libertà compositiva, sperimentale. Sto assistendo a una sorta di Rinascimento del design italiano, con moltissimi giovani che hanno studiato in patria e fuori, lottando per rimanere in Italia. Io la ritengo una situazione molto positiva e credo che Operae sia un’ottima lente d’ingrandimento per questi numerosi, giovani talenti.
Potresti dare la tua definizione di design? Cosa sta realmente cambiando e in quale materia si sta trasformando?
Non esiste più una definizione di design. Il design si è sviluppato davvero molto. D’altra parte, non è vero che tutto sia design. Non basta più ricercare quel che viene pensato in maniera intelligente, realizzato in maniera efficiente e in grado di apportare un contributo alla società. Non basta nemmeno pensare al progetto d’autore come a una mera progettazione di elementi costituiti per l’industria. Esistono molteplici gruppi e aspetti del design contemporaneo: comunità legate a chi lavora a supporto del design da collezione, all’hand-made, al do-it-yourself, al design dedicato al processo industriale, a chi lavora a stretto contatto con le scienze, con la ricerca, senza dimenticare il design che ricrea nuove strutture, all’interno della società. Il problem-solving è un approccio tipico del design e si sta applicando a infinite discipline e campi diversi.
Riguardo al tema che hai scelto, e all’impostazione teorica, quali strategie del design stanno entrando in crisi e perché?
Più che intravedere crisi, io vengo messa di fronte, ogni giorno, a nuove opportunità. In effetti sono osservabili strutture e realtà storicizzate che non riescono più a funzionare allo stesso identico modo, ma al loro posto emergono ulteriori campi d’azione. Ad esempio, non è mai stato così semplice, per i designer indipendenti, produrre, comunicare e vendere per proprio conto. Esistono nuove tecnologie, tra le quali la stampa 3D, che permettono a moltissimi autori di diventare indipendenti. Non ritengo che nuove realtà cancellino le precedenti, ritengo che possano affiancarsi: produzione industriale accanto a pezzi unici; il 3D di fianco agli stampi classici. Sarà sempre più stimolante riuscire a ricomporre tutte le tipologie di produzione non escludendo nulla a priori. I designer, ad esempio, stanno rivalutando e riscoprendo l’artigianato, facendo rivivere settori che sarebbero stati affidati solamente alla memoria degli oggetti vecchi. A Schloss Hollenegg il designer scozzese Dean Brown ha creato quindici oggetti all’interno dei quali risulta sempre esserci un elemento stampato in 3D, un elemento prodotto artigianalmente, come il vetro soffiato, e un elemento, come il legno, lavorato quale componente semi-industriale. Queste combinazioni rappresentano reali opportunità.
Stampa 3D e auto-produzione possono dare vita a un giusto compromesso tra la fattura di oggetti irripetibili e la tecnologia del design industriale?
In una società satura di oggetti, la serialità di produzione del processo industriale non è più l’unico traguardo. Questa è una delle ragioni per cui sempre più designer decidono di auto-produrre i loro lavori. La stampa 3D è uno degli strumenti a loro disposizione, per creare oggetti unici o in serie limitata. Il concetto di oggetto unico, nell’ambito del design, è ancora poco compreso, perché viene spesso confuso con arte o artigianato, anche se in realtà parte da presupposti e logiche diverse, come ad esempio la progettazione del processo di produzione, prima ancora dell’oggetto.
È la prima volta che Operae abbandona una sede storica nel centro di Torino per avvicinarsi ad Artissima, al Lingotto. È un segnale di meticciaggio con l’arte contemporanea, fra pubblici, approcci, mercati, collezionisti e meccanismi connessi?
La scelta di spostarsi al Lingotto è un’evoluzione naturale del progetto Operae. La fiera è cresciuta e la splendida cornice dei palazzi storici del centro non basta più: siamo una fiera, dunque andiamo in fiera. L’anno scorso le fondatrici, Sara Fortunati e Paola Zini, assieme ad Annalisa Rosso, curatrice dell’edizione 2016, hanno introdotto le gallerie, facendo una mossa davvero vincente. Andando al Lingotto, si posiziona il design in maniera strategica; è un segnale: siamo cresciuti. Del resto, quando arte e design entrano in residenze private, nelle nostre case, vengono comunque sempre disposti gli uni accanto agli altri, cessando di separarsi in due compartimenti diversi, pur rimanendo due discipline distinte.
Quali caratteristiche ha il design a Torino? Come valorizzarle attraverso Operae?
Come ogni anno Operae produrrà il progetto Piemonte Hand-Made, artigianato applicato al design che richiama una tradizione storica del design a Torino. Anche quest’anno coinvolgeremo dieci gallerie, dieci designer e dieci artigiani d’eccellenza sul territorio. Non essendo torinese, per me questo rappresenterà una grande opportunità, una grande scoperta che ancora molti non conoscono. Nell’ultimo decennio, a Torino, il design ha acquisito un carattere di ricerca, di sperimentazione, d’avanguardia unico.
Potresti esprimere un pensiero, un augurio che accompagni la selezione dei futuri protagonisti di Operae?
Vorrei invitare i designer a essere coraggiosi nell’esprimere un pensiero forte, una visione che porti a nuovi linguaggi visivi dall’immaginario compatto. Mi auguro che gli autori di quest’anno sviluppino progetti supportati da un pensiero e un livello concettuale molto forte.
– Ginevra Bria
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