Il design è “materia viva”. Intervista a Lining Yao
Il futuro del design passa per i laboratori, dove i nuovi scienziati-designer agiscono direttamente sulla materia, manipolandone struttura e comportamento. Per saperne di più abbiamo incontrato Lining Yao, giovane esperta di bio-design e programmazione dei materiali invitata a Milano da Meet The Media Guru per presentare i progetti realizzati al Media Lab del MIT.
Una t-shirt tecnica “seconda pelle” (Second Skin) costellata di sensori viventi – batteri del tipo Bacillus Subtilis, noti anche ai gourmet giapponesi perché implicati nella preparazione di una gelatina fermentata chiamata netto – che reagiscono al sudore espandendosi e aprendo piccole fessure per permettere alla pelle di respirare. Una pasta di nuovissima generazione (Trasformative Appetite), realizzata con una sottile pellicola 2D commestibile, che può essere trasportata sotto forma di fogli piatti e cambia aspetto ripiegandosi su se stessa a contatto con l’acqua calda. Dietro questi progetti sorprendenti c’è una giovane designer e ricercatrice di origine cinese, Lining Yao, nata nelle steppe della Mongolia Interna nel 1986 e cresciuta al Media Lab del MIT di Boston diretto da Hiroshi Ishii prima di approdare alla Scuola di Computer Science della Carnegie Mellon University con un incarico da docente, passando per una residenza d’artista a San Francisco, al Pier 9 di Autodesk.
Le sue ricerche si sviluppano a cavallo tra interaction design, scienza dei materiali e ingegneria biologica. L’obiettivo è sintetizzare nuove interfacce usando la biologia, ottenendo dei sensori, detti attuatori nano-viventi, che non sono prodotti in fabbrica ma coltivati in laboratorio e possono essere applicati agli oggetti della vita quotidiana rendendoli più intelligenti. L’abbiamo intervistata a Milano, dove è stata inviata dalla piattaforma di approfondimenti sull’innovazione Meet The Media Guru per presentare il suo lavoro al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia.
Che differenze ci sono fra il tuo lavoro e quello dei designer tradizionali?
La principale differenza è negli strumenti con cui lavoriamo. Per capire la composizione dei materiali a livello biologico e strutturale e manipolarne il comportamento, io e i miei colleghi ci serviamo di elettro microscopi, microscopi atomici e altri strumenti quantitativi. In un certo senso siamo dei programmatori, ma invece del codice informatico usiamo le leggi della fisica, della biologia o della chimica, a seconda del risultato da raggiungere.
In che modo riuscite a integrare biologia e design?
Ci sono diversi modi: si va dalla bio-ispirazione, con materiali ispirati alla natura, ai bio-materiali geneticamente modificati, passando per il bio-mimetismo e i materiali bio-derivati o bio-ibridi. Il nostro lavoro si muove negli ultimi tre ambiti. Possiamo replicare la struttura della natura con un materiale diverso, per esempio creando un tessuto idrorepellente che replica la struttura delle foglie di loto e il modo in cui queste respingono l’aria, oppure scegliere di utilizzare direttamente elementi naturali, come i batteri della nostra Second Skin, combinandoli con materiali artificiali per ottenere una migliore performance, o ancora decidere di andare oltre e modificare geneticamente i nostri batteri per fare in modo che risplendano al buio.
Il risultato finale, oltre a essere sorprendente dal punto di vista tecnico, è anche molto bello. La t-shirt sembra disegnata da uno stilista. Da dove arriva l’ispirazione?
In realtà l’estetica non era in cima alla lista delle nostre priorità. Abbiamo utilizzato un sistema di imaging termico per capire in quali aree della schiena umana si concentrasse la sudorazione. Questo ci ha dato un’idea di dove dovessero essere posizionate le fessure e quanto dovessero essere grandi. Una stilista ci ha aiutati a ottenere un prototipo di indumento che avesse una perfetta aderenza al corpo, ma il pattern si era già imposto a noi perché strettamente connesso alla funzione. Sono una designer e come tale detesto le cose brutte, però mi trovo sostanzialmente d’accordo con quanto sostiene un professore di Harvard, uno scienziato puro che si occupa di reti neurali e che è stato in grado di produrre immagini del suo oggetto di studio dotate di un valore artistico, in cui i neuroni posano come in quadro di Pollock [si tratta di Jeff Lichtman, i cui lavori sono stati visti anche nel nostro Paese durante l’edizione 2011 del Brain Forum, N. d. R.]. A chi gli chiede a quale artista si sia ispirato risponde sempre che la cosa più bella è la natura stessa.
Vedremo presto Second Skin sul mercato? Ci sono altri sbocchi possibili oltre all’industria dello sportswear?
Il prodotto necessita ancora di una lunga fase di test, i cui tempi dipendono anche dalla collaborazione che riceveremo dalle aziende. La mia missione come ricercatrice non è certo quella di fare business, comunque abbiamo ricevuto segnali di interesse da più parti, da Nike e New Balance ma anche da federazioni sportive e da aziende che producono tessuti per la casa. Ci ha scritto anche la madre di un bambino colpito da una malattia rara che lo rende ipersensibile al calore, è stato commovente perché abbiamo capito che questa nuova tecnologia potrebbe salvare la vita di suo figlio e di altre persone con la stessa sindrome.
Sei appena tornata da una residenza artistica a San Francisco, nell’ambito del progetto Pier 9 di Autodesk. Hai avuto modo di riflettere sull’aspetto provocatorio del tuo lavoro, sul modo in cui mette in questione la nostra relazione con gli oggetti?
È un aspetto che mi interesserebbe approfondire. Credo che ci sia qualcosa di provocatorio nel dire agli utenti che stanno per interagire con un tessuto “vivo”. Senz’altro l’idea di mettersi dei batteri sul corpo di proposito si scontra con alcuni nostri preconcetti. Le nostre mamme ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che era bene liberarsene lavando le mani spesso o usando disinfettanti. In un video che abbiamo girato, due ballerini della Boston Ballet Company eseguono una coreografia per illustrare il funzionamento di Second Skin. All’inizio erano un po’ turbati all’idea dei batteri in movimento ma si sono abituati in fretta, al punto da cominciare a improvvisare cambiando i passi.
Le tue ricerche trovano applicazione in molti contesti diversi, dalla moda al cibo all’architettura. In quale settore pensi che i materiali programmati biologicamente possano essere più utili?
Secondo me i bio-materiali saranno sempre più importanti perché sono i computer del futuro, lo testimoniano tutte le ricerche in corso sulla possibilità di usare il DNA per lo stoccaggio di informazioni. Lo scienziato-artista Joe Davis, per esempio, sta cercando di codificare Wikipedia nel DNA di una mela per creare una sorta di “albero della conoscenza”. Credo che gli ambiti nei quali ci sarà più bisogno di bio-materiali e nei quali sarà più interessante usarli siano quelli che intrattengono un rapporto più stretto con il corpo umano, per esempio il cibo o l’abbigliamento, perché questi materiali sono più morbidi, più friendly rispetto ad altre tecnologie.
Credi che in futuro possederemo meno oggetti, che però saranno più intelligenti e in grado di adattarsi ai nostri bisogni?
L’idea di un futuro in cui tutte le cose si muovono e stabiliscono connessioni tra loro, come nel film Avatar, mi sembra spaventosa. Credo nella possibilità di sviluppare oggetti intelligenti che coesistano con altri oggetti più tradizionali, statici, e che rendano il mondo che ci circonda più accogliente senza sopraffarci o spaventarci troppo.
– Giulia Marani
www.meetthemediaguru.org
http://web.mit.edu/
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