Vienna Design Week 2017. Intervista alla direttrice Lilli Hollein
Sta per compiere undici anni e cosa fa? Raddoppia! Due di tutto, per l’edizione 2017 della Design Week viennese: due sedi per quartier generale, due centri di contatto e info point, e gli appuntamenti non si contano nemmeno. Insomma, è esuberante più che mai. Ma come è nata, come si è sviluppata e di cosa si occupa veramente? Per saperlo lo abbiamo chiesto a Lilli Hollein, la fondatrice e da sempre direttrice della Vienna Design Week.
Una kermesse, un festival, una festa. Chiamiamola come meglio ci piace, ma l’ormai consueta Vienna Design Week non cambia l’abitudine di durare dieci giorni. Sintomo dell’alta densità degli eventi in cartellone. D’altronde la capitale austriaca, con il suo prestigioso Mak, il museo delle arti applicate fondato nell’Ottocento, e la coeva Accademia (ora Università) delle Arti Applicate, è tradizionalmente un luogo di ricerca, di progettazione, di sperimentazione di oggetti con proprietà estetiche. Massimiliano Fuksas, per esempio, durante la sua esperienza viennese come artefice di due torri gemelle costruite ai margini del nucleo metropolitano, ci confidò di non avere mai visto tanta attenzione per i dettagli come a Vienna.
Qui, storicamente, il Novecento si era aperto con la fondazione della Wiener Werkstätte, un movimento dalla risonanza internazionale, fondato dall’architetto e designer Josef Hoffmann, insieme ad altri. Fu una associazione che come finalità si proponeva il rinnovamento dell’oggetto d’uso quotidiano affinché possedesse in sé un quid di bellezza che lo distinguesse dal prodotto bruto dell’ottocentesca fabbricazione industriale. A distanza di un secolo, gli Anni Zero si sono aperti con l’avvento della Vienna Design Week, ricca rassegna espositiva di oggetti “ben formati”, per così dire, testimoniando gli sviluppi di una iper-produzione differenziata, tra piccola, media e grande industria in cui è esemplarmente presente la lezione storica dei maestri.
Alla vigilia della undicesima edizione della Vienna Design Week, ci è parso il momento opportuno per una conversazione con Lilli Hollein, la direttrice, la front woman e, grazie alla sua vitalità, l’infaticabile animatrice della manifestazione, dopo esserne stata una delle ideatrici.
Mi piacerebbe sentirti raccontare il percorso che ti ha condotto all’importante ruolo che rivesti.
La Vienna Design Week fu fondata undici anni fa, nel 2007, da me e da due miei colleghi, tutti esperti nel ramo del design, ma con differenti specializzazioni; nel mio caso anche quella in architettura. Ciò che ci spinse a fare questo passo fu la nostra convinzione di voler cambiare qualcosa in questa città per dare una nuova spinta e un nuovo ruolo alla forma-funzione degli oggetti. Undici anni fa la tematica del design era piuttosto statica: pur essendo attiva una scuola di design con l’Università delle Arti Applicate, non c’era né discussione né un buon coinvolgimento della gente.
Che ruolo ha avuto, nelle tue scelte, la tua famiglia, e in particolar modo tuo padre, l’artista e architetto Hans Hollein, vincitore tra l’altro del Pritzker Prize nel 1985?
Puoi immaginare che, essendo cresciuta in una famiglia in cui c’era una grande apertura verso l’arte, l’architettura e il design, è sicuramente lì che ho cominciato a provare un certo entusiasmo. Stando accanto a mio padre e a mia madre, è stato automatico sviluppare una basilare sensibilità culturale verso i temi della progettazione, pensando poi di poter partecipare anch’io a questa sfera creativa. E questo nonostante a scuola io non abbia voluto studiare nulla che avesse uno stretto legame con l’arte. In realtà qualche anno dopo ho cambiato decisamente idea.
Come hai cominciato a mettere in pratica il tuo interesse per il design?
Durante gli studi universitari ho capito che nel campo della creatività progettuale mi interessava in particolar modo avere un ruolo attivo di mediazione culturale. Ho percepito di voler comunicare con un vasto pubblico per avvicinarlo a tematiche legate al design e all’architettura. Così ho cominciato a scrivere articoli su quotidiani e riviste, e a sviluppare mostre. Per me la comunicazione è stata, e lo è sempre, un processo creativo quanto la progettazione stessa. La mia posizione attuale mi permette di comprendere come l’atto creativo sia strettamente connesso al processo tecnico della produzione.
Mi ricordo che collaboravi anche alla rivista Domus, leggevo i tuoi articoli…
Sì, vi ho collaborato all’incirca dal 2000 al 2004, sotto la direzione di Deyan Sudjic.
Se ti chiedessi la definizione di “design”, nella totalità del fenomeno, cosa mi risponderesti?
Le definizioni di “design” ci sfuggono continuamente. E già questo descrive bene come esso sia un campo dinamico, che si dà la missione di stare al passo con il cambiamento sociale, e non solo perché debba essere in astratto un settore d’avanguardia, ma per diffondere gli strumenti del cambiamento. Sicuramente il design riassume un complesso di attività per lo sviluppo sociale; dopo di che, in senso più pragmatico, la forma tridimensionale di un oggetto aiuta in concreto nella vita quotidiana, rispecchiando al tempo stesso l’innovazione e il progresso umano. Ed è evidente come negli ultimi 10-15 anni il design raggruppi in sé molte discipline, riuscendo a porsi complessi interrogativi di varia natura.
Una definizione in tre parole?
Impossibile.
Proviamoci con tre aggettivi…
Con tre aggettivi? No, non mi sembra adeguato descrivere il design con aggettivi, visto che si manifesta come fenomeno in continuo, ininterrotto mutamento.
La Vienna Design Week, con il suo ampio numero di visitatori senza distinzioni culturali né sociali, testimonia un generale e diffuso desiderio di “bellezza”. Secondo te a cosa può essere attribuito questo fenomeno di fascinazione?
Afferrare la bellezza è un desiderio intimo, connaturato alle persone. Io sono portata a credere che ognuno, qualunque sia il suo grado di educazione e di formazione, sia capace di riconoscere intuitivamente l’intrinseco valore, funzionale ed estetico, di un oggetto. La naturale aspirazione della “settimana” viennese è certamente quella di ricevere consenso per la qualità delle sue proposte. Tuttavia la scommessa di questo festival sta anche nell’offrire a chiunque la possibilità di esprimersi sul senso della bellezza. Nelle nostre visite a botteghe e laboratori, la gente può realmente veder nascere un prodotto. Per capire, ad esempio, la bellezza di un bicchiere molto sottile, apparentemente fragile, non ci vuole una preparazione particolare. Tenendolo anche in mano, si intuisce come tutto sia frutto di un virtuosismo tecnico e creativo. E per coloro che ambiscono a conoscenze specifiche ci sono seminari, simposi, discussioni.
Quanti eventi avranno luogo in questa undicesima edizione?
Saranno 190, più di sempre.
Questo mi conferma che tu, nell’organizzare il festival, avverti nella gente un sempre maggiore desiderio di appagarsi per mezzo della bellezza. Eppure, ti dirò, qualcuno, per l’esattezza il filosofo tedesco Odo Marquard, ormai qualche decennio fa, ha elaborato la teoria secondo cui l’arte e l’estetica hanno assunto, nella coscienza dell’uomo, il compito di compensare il disincanto del mondo; compensare, cioè, il vuoto di senso e di valori generato dall’età della tecnica. Cosa ne pensi?
Non me la sento di porre in contrapposizione tecnica ed estetica, non più in tempi dove ci sono già tanti antagonismi. Può essere che oggi la tecnica occupi un grande spazio nella nostra vita, e che viviamo in un modo che trent’anni fa non avremmo potuto prevedere, ma questo non lo trovo del tutto sbagliato. Insieme alla tecnica, io vorrei che arte ed estetica giocassero un ruolo essenziale nella nostra società.
Tuttavia tu non temi che un eccesso di estetica possa a un certo punto trasformarsi in an-estetica? Questo aspetto, il filosofo Marquard, forse per una sorta di esuberanza teoretica, lo riteneva un processo già in atto. Si sbagliava?
Non ho pronta una filosofia da contrapporre a Marquard, e non me la sento di prendere posizione su una linea così radicale. La mia è una filosofia del quotidiano. E poi non ho la sensazione che ci siano tanti spazi della vita così fortemente plasmati e condizionati dalla estetizzazione.
Quale sarà il pezzo forte tra le proposte di questa Vienna Design Week? O, se preferisci, per cosa potrà essere ricordata questa undicesima edizione?
Chiedermi quale sia il pezzo forte è un po’ come chiedere a una madre del suo bambino più amato: non si può rispondere. Il festival viennese cerca consapevolmente di mettere in calendario vari modi di accesso al design, vivendolo in maniere differenti, così che ognuno ne esca con una differente esperienza. Nel corso delle edizioni, un successo particolare lo ha riscosso il progetto che abbiamo intitolato Passionswege – cammini di passione – e quindi lo riproponiamo ancora. Consiste nel mettere insieme designer internazionali e imprese per progetti congiunti, e osserviamo come ognuno ha qualcosa da imparare dall’altro. Questa edizione, poi, vuole riscoprire due luoghi del passato, dimenticati e malridotti. Sono la Blaues Haus e la Z-Sparkasse nel quindicesimo distretto di Vienna, dove abbiamo allestito due distinte sedi del nostro quartier generale, chiamandole rispettivamente Festivalzentrale Nord e Festivalzentrale Süd.
Non vedo più sul logo del festival l’immagine della sedia stile ufficio ministeriale, che nelle passate edizioni figurava come icona, indubbiamente ironica, della manifestazione e che di anno in anno cambiava solo nel colore della verniciatura. Cosa ne hai fatto, l’hai spedita in soffitta per raggiunti limiti di servizio?
Non temere, amiamo sempre la nostra sedia! Dopo dieci anni l’abbiamo tolta dal logo, ma è ancora in attività. La usiamo come in passato, esponendola “in carne e ossa”, come elemento guida davanti a tutti i luoghi della manifestazione. Quest’anno sarà nuovamente bianca.
‒ Franco Veremondi
Vienna // fino all’8 ottobre 2017
Vienna Design Week
Festivalzentrale Nord
Blaues Haus
Europaplatz 1
Festivalzentrale Süd
Z-Sparkasse
Sparkassaplatz 4
www.viennadesignweek.at
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