Dall’Africa nera all’Africa vera. Design e fotografia in mostra a Milano
Le piroghe dei pescatori o dei migranti usate come “anima” di un divano, mobili fatti con armi e munizioni, progetti fotografici che aprono spazi di riflessione sul presente. A Palazzo Litta, a Milano, una mostra curata da Elisa Astori e Maria Pia Bernardoni racconta la scena creativa dell’Africa subsahariana attraverso il lavoro di designer e fotografi.
“Finché i leoni non avranno i loro scrittori, i racconti di caccia continueranno a glorificare i cacciatori”, recita un proverbio nigeriano. Vista dalla nostra latitudine, l’immagine dell’Africa appare sfocata e distorta: il continente, grande tre volte l’Europa e abitato da più di un miliardo di persone, è scarsamente raccontato, se non attraverso il prisma della cronaca e al traino delle emergenze del momento – guerre, siccità, emigrazione – oppure secondo la visione esotico-romantica del viaggiatore. I manufatti prodotti a sud del Sahara vengono spesso associati a forme artigianali rudimentali, etichettate come tradizionali o etniche. Eppure, l’Africa subsahariana ospita grandi energie creative che, oltre a seguire da vicino le trasformazioni politiche e sociali in atto nel continente, affrontano questioni potenzialmente di rilevanza globale.
UN’AFRICA DINAMICA
La seconda mostra di Palazzo Litta Cultura, AfricaAfrica, exploring the Now of African design and photography, organizzata da MoscaPartners e MIA Photo Fair, ci aiuta a guardare oltre gli stereotipi presentando i lavori recenti, tutti realizzati tra il 2015 e il 2017, di quattordici designer e sette fotografi provenienti da sei Paesi diversi, dalla Costa d’Avorio al Sudafrica. Un’istantanea della scena creativa africana che supera l’immaginario obsoleto del continente bisognoso e indifeso e restituisce l’immagine – più realistica – di un’Africa dinamica, innovativa e connessa con il resto del mondo. “Siamo in una realtà globale”, racconta Maria Pia Bernardoni, curatrice dei progetti internazionali della Photo Fair di Lagos e della sezione fotografica della mostra, “in cui è diventato più facile osservarsi a vicenda e in cui anche noi possiamo ricevere spunti o suggerimenti rilevanti dagli artisti africani, per esempio osservando la critica di Maurice Mbikayi alla tecnologia e agli scarti che produce”. Nelle fotografie dell’artista congolese i rifiuti elettronici, componenti di computer in disuso e altro materiale di risulta, entrano in stretta relazione col corpo e allertano sui rischi per le persone coinvolte nel loro trattamento in Africa.
DESIGN ETEROGENEO
I pezzi di design, che in ciascuna delle sale dialogano con le fotografie, sono eterogenei per stile – d’altronde come potremmo ipotizzare l’esistenza di un’unità stilistica in un continente di oltre 30 milioni di chilometri quadrati? – ma hanno come caratteristica ricorrente il riutilizzo creativo di materiali di recupero o di oggetti mutati di destinazione grazie a una capacità, l’hackability, che fa parte della vita quotidiana di molti africani. Il divano coloratissimo che apre la mostra, opera dell’ivoriano Jean Servais Somian, ha come punto di partenza il relitto di una piroga trovato sulla spiaggia e, oltre a dare piacere alla vista e supporto alle terga, denuncia un problema sociale, quello delle giovani generazioni africane che rischiano la vita su quelle stesse piroghe cercando di raggiungere l’Europa. Le madie e le cassettiere dai colori pop di Hamed Ouattara, del Burkina Faso, sono realizzati a partire da lamiere e barili di petrolio. Gonçalo Mabunda si è fatto notare sulla scena artistica internazionale con i suoi oggetti-scultura – troni, maschere – creati usando armi e munizioni che rappresentano il terribile lascito della guerra civile nel suo Paese, il Mozambico.
RESPONSABILITÀ SOCIALE
Un altro elemento importante è l’idea di responsabilità sociale che, oltre a emergere nelle opere, è centrale nella pratica lavorativa della maggior parte dei designer selezionati. “Ognuno di loro è impegnato nella promozione dello sviluppo del suo Paese di provenienza”, spiega Elisa Astori, curatrice della sezione design e per vent’anni impegnata nella gestione dell’azienda di design di famiglia, Driade. “In generale, appena cominciano a ottenere un certo successo e a emanciparsi dai problemi del quotidiano, cercano di tramandare il loro sapere, tengono dei laboratori o comunque si aprono alla comunità”. È il caso, per esempio, di Stephen Burks, l’unico tra i designer scelti a essere legato all’Africa solo per via delle origini familiari, che ha percorso buona parte del continente lavorando ai suoi intrecci con le comunità artigiane e ha proposto la produzione manuale come strategia di innovazione per i grandi marchi europei. Non sfugge all’idea di responsabilità neanche Mabeo, il più noto brand di design africano Made in Botswana, con un bacino di utenza che tocca quasi tutto il mondo e collaborazioni attive con designer internazionali del calibro di Patricia Urquiola, che utilizza legno proveniente da foreste gestite in maniera sostenibile, in particolare di panga panga, una pianta dalla crescita rapida.
‒ Giulia Marani
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