Luci e ombre del Triennale Design Museum. A Milano
L’undicesima edizione del TDM11 è una storia plurale e multidisciplinare a cavallo tra economia, politica, comunicazione e tecnologia. Un racconto ambizioso di un secolo di design nostrano, che tuttavia, cercando di raccontare troppo, sembra disperdere la propria vocazione narrativa.
Una trama mai riconducibile a un unico plot. Difficile non concordare sul presupposto che la ricchezza del design italiano, il suo essersi sviluppato a partire da impulsi, territori e aspirazioni differenti quando non antitetici, sia difficilmente sintetizzabile in una formula univoca, in una frase lapidaria o in uno stile preconfezionato. Non stupisce, pertanto, che il Triennale Design Museum, istituzione che fin dalla sua nascita nel 2007 ha sempre fatto della valorizzazione di questa complessità il suo fiore all’occhiello e la sua missione, abbia scelto per la sua undicesima edizione di restituire questa identità sfaccettata attraverso percorsi interdisciplinari, legati a doppio filo alle diverse comunità e professionalità che hanno animato la cultura del design nel nostro Paese.
Storie, questo il titolo scelto per la reincarnazione del cosiddetto “museo mutante”, dichiara dunque fin dal titolo non soltanto la volontà di affermare un racconto plurale, ma anche la scelta del meccanismo narrativo come dispositivo privilegiato per svelare e tramandare la ricchezza insita in un patrimonio culturale e manifatturiero denso e stratificato.
Organizzata intorno a un percorso centrale di carattere diacronico – 180 prodotti realizzati dal 1902 al 1998, volutamente attestati a una distanza di sicurezza rispetto al presente per garantire una maggiore affidabilità critica ‒, la mostra affianca cinque percorsi complementari – “Politica”, a cura di Vanni Pasca, “Geografia” ed “Economia”, entrambi a cura di Manolo de Giorgi, “Tecnologia”, a cura di Raimonda Riccini, “Comunicazione”, a cura di Maddalena Dalla Mura – pensati come un’opportunità per valorizzare specifiche linee di ricerca e per dare visibilità a esperienze uniche di cui il nostro Paese ha saputo fare tesoro.
I PUNTI DEBOLI
Eppure, l’incredibile abbondanza di spunti non sembra paradossalmente contribuire alla promozione di una vera e propria narrativa, quanto al contrario diluire le trame e le specifiche microstorie che animano la nostra grande saga nazionale. La scelta dei 180 pezzi in mostra, molti dei quali largamente familiari non solo perché canonizzati da tutte le storie del design mondiale, ma anche perché inseriti, dal secondo dopoguerra a questa parte, nel tessuto abitativo e nella storia personale di molti visitatori (a esclusione ovvia dei giovanissimi), non riescono tanto a tramandare una storia ‒ che non basta una copiosa didascalia a innescare –, ma preferiscono esaltare la propria dimensione iconica come da un piedistallo, trasformandosi in un portato simbolico della capacità creativa del nostro Paese, se non addirittura in una vera e propria mitologia. Né, tantomeno, la separazione tipologica nelle diverse sezioni ‒ organizzate nell’allestimento a cura di Calvi e Brambilla in diverse stanze, secondo un impianto che vuole ricreare la complessità del design italiano ispirandosi alla metafora della complessità dell’organizzazione urbanistica ‒ contribuisce a innescare quei cortocircuiti narrativi in grado di trascendere l’oggetto esposto per ricostruirne l’immaginario che ne ha nutrito la progettazione, la provocatorietà al momento della sua immissione nel mercato, l’accoglienza che ha trovato tra i suoi pubblici e i vissuti che ha saputo incoraggiare.
UN POTENZIALE INESPRESSO
Il grande interesse dei temi proposti dalle sezioni laterali – eccezionale la sezione “Economia”, che racconta una storia realmente inaccessibile anche agli addetti ai lavori, ossia quella dei margini di produttività di tanti bestseller della nostra storia industriale – risulta purtroppo eccessivamente contratto: un effetto da cartuccia spuntata, ahinoi, per temi che avrebbero meritato maggiore respiro e divulgazione (come non immaginare con una certa golosità una mostra sul cortocircuito tra design e politica o design e comunicazione, ad esempio?), e che invece rischiano di bruciarsi senza aver messo a frutto tutto il loro potenziale.
Accattivante, poi, l’unica sezione dedicata al contemporaneo (a cura di Chiara Alessi), un reportage sui nuovi processi di produzione e commercializzazione del design contemporaneo capace non solo di spiegare lo spazio conquistato da open source, crowdfunding, e-commerce ecc., ma anche di coinvolgere i visitatori con un inaspettata piattaforma di acquisto – forse l’idea più appassionante e imprevista dell’intera mostra – dove rendere disponibili venti pezzi appositamente realizzati per il TDM11 da acquistare online e quindi da recuperare da un magazzino automatizzato in Triennale, creato per l’occasione.
Impossibile, infine, non legare l’esito di questa undicesima edizione al dibattito sulla necessità di fondare un “vero e proprio” museo milanese consacrato al design, di cui abbiamo dato conto sulle pagine di questo giornale. Nasce il sospetto, aggirandosi tra le sale della mostra, che sia stata proprio la pressione verso la canonizzazione museale ad aver inficiato la piena riuscita di questa edizione del museo mutante. Come non pensare alla sfilata di prodotti in bella vista nel percorso di Storie come a una prova generale del museo che forse è in ballo? Una storia che non è ancora finita, questa, e di cui restiamo in trepidante attesa. Auspicandoci che l’agognata proliferazione degli spazi dia lo slancio e la possibilità per una differenziazione dei racconti secondo canoni non più penalizzati dalla necessità di un compromesso.
‒ Giulia Zappa
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