Un’isola di plastica grande fino a 10 milioni di km2, per detriti pari – lo dicono le stime più allarmiste – a 100mila milioni di tonnellate. Sono i numeri, sconvolgenti, del Pacific Trash Vortex (o Great Pacific Garbage Trash), il grande accumulo di spazzatura che affligge l’Oceano Pacifico da oltre trent’anni. Una superficie che, secondo una rilevazione effettuata lo scorso marzo, è oramai pari a tre volte la Francia e che risulta purtroppo in cattiva compagnia: sono attualmente cinque i “vortici” che si sono configurati a ogni latitudine, compromettendo lo stato di salute dei mari in maniera forse irreversibile.
Dentro il loro magma intricato, 5 trilioni di pezzi di plastica – tra cui reti da pesca, sacchetti, contenitori, vettovaglie usa e getta – si uniscono alle pervasive microplastiche: risultato (anche) del disfacimento di pezzi di plastica più grandi, queste ultime hanno oramai contaminato tutta la catena alimentare, passando dai pesci e finendo per insidiarsi nei nostri corpi. Per invertire la rotta di questa ecatombe ambientale, sono molte le iniziative messe in campo per porre un argine al problema. Le più efficaci? Noi ci sentiamo di scommettere su quelle design-oriented. Vediamo per quali motivi.
THE OCEAN CLEANUP
Per capire come la progettazione stia facendo ricorso alla sua innata capacità di problem solving anche in uno scenario quanto mai insidioso e vitale qual è il Pacific Trash Vortex, iniziamo facendo il nome di Boyan Slat, un inventore olandese di origini croate che a soli ventidue anni ha fondato, nel 2013, l’infrastruttura ad oggi più accreditata per ripulire l’ambiente marino: The Ocean Cleanup. Oggi una fondazione con sede a Delft, la creatura di Slat – inserito da Forbes nella lista dei trenta under 30 più importanti nel settore scientifico nel 2016 – ha messo a punto un’originale e finora intentata barriera galleggiante lunga due chilometri, l’Ocean Array Cleanup, che si muove sfruttando le correnti – e dunque senza alimentazione né ricorso a piloti – per trascinare con sé la spazzatura e convogliarla verso specifici centri di raccolta, dove sarà recuperata da apposite imbarcazioni. Sufficientemente flessibile per seguire il moto delle onde e sufficientemente rigida per mantenere la sua forma a U – l’unica capace di convogliare i rifiuti dispersi –, la barriera non arreca danno alla flora marina e si propone di raccogliere frammenti fino a 1 cm di grandezza. Dopo i test pilota, l’Ocean Array Cleanup è oggi pronta per il suo battesimo in mare, conditio sine qua non per portare a termine il piano ambizioso di ripulire il 50% del Great Pacific Garbage Trash nei prossimi cinque anni.
GLI ALTRI PROGETTI
Su scala minore, altri progetti stanno tentando di mettere a punto soluzioni capaci di rispondere a insidie specifiche da inquinamento da plastica nell’ambiente marino. In funzione da circa un anno, il Seabin Project è un vero e proprio cestino della spazzatura pensato per marine, porti o aree di grande concentrazione di barche e yacht. Sviluppato grazie a una campagna di crowdfunding da due surfisti, Pete Cegliski e Andrew Turton, e oggi in vendita a un costo di circa 3mila sterline, il Seanbin riesce a catturare circa un chilo e mezzo di plastiche (nonché oli) al giorno per un potenziale annuale di 20mila bottiglie di plastica e 83mila sacchetti. Su scala ancora più micro, il raccoglitore di fibre sintetiche Cora Ball Microfiber Catcher lanciato dal Rozalia Project mira a ridurre la plastica alla fonte, prima della sua dispersione nelle acque: questa sorta di pigna in plastica viene infatti inserita in lavatrice per raccogliere le microfibre rilasciate dai tessuti sintetici (ad esempio da un inquinantissimo golf di pile) che, senza questo filtro, finirebbero prima o poi in mare.
C’è poi chi guarda all’impiego della plastica raccolta dagli oceani – anche a seguito di una capillare azione di pulizia delle coste, quale quella che portata avanti da International Costal Clean Up – come a una maniera per sensibilizzare al consumo responsabile e alla riduzione dell’uso di plastica vergine nella nostra quotidianità. A dare il là a questo tipo di operazioni a cavallo tra riciclo virtuoso e comunicazione è stata Adidas, che ha venduto nel 2017 oltre un milione di esemplari di Parley UltraBoost, realizzate con plastica riciclata dagli oceani. L’iniziativa è stata lanciata in collaborazione con l’organizzazione Parley for the Ocean: il suo fondatore – l’ex designer Cyrill Gutsch, ora votato alla causa ambientalista – ha dichiarato che la plastica rappresenta un autentico fallimento per il mondo del design, una “droga” da cui ci dobbiamo disintossicare riscrivendo le nostre prerogative progettuali e le nostre abitudini di consumatori.
LA CAMPAGNA
Durante l’ultima design week milanese, l’appello a un uso responsabile della plastica è arrivato anche da una delle signore nobili del design nostrano, Rossana Orlandi, talent scout e fondatrice dello storico Spazio Rossana Orlandi, galleria e shop a Milano. La sua campagna “guitless plastic” ha voluto sensibilizzare i designer alle mille possibili applicazioni della plastica riciclata. Nei giorni del Salone, lo scorso aprile, la conferenza Senso di Colpa ha raccolto i case study più rilevanti, mentre in autunno è atteso il lancio di un concorso per premiare i progetti più innovativi realizzati con plastica riciclata.
‒ Giulia Zappa
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #44
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