Open to Art, open to Design. Intervista alla fondatrice di Officine Saffi
Il 13 febbraio, a Milano, negli spazi delle Officine Saffi, verrà proclamato il vincitore della terza edizione del premio biennale ideato e promosso per valorizzare le capacità espressive della ceramica nel mondo dell’arte e del design. Ne parla la sua ideatrice e fondatrice, Laura Borghi.
Nella corte elegante delle Officine Saffi, dal 14 febbraio al 18 aprile 2019, in occasione di Open to Art, gli artisti in mostra saranno: Salvatore Arancio, Giulia Bonora, Roger Coll, Tommaso Corvi Mora, Yewen Dong, Sophie Mirra Grandjean, Joe Isanako, Cecil Kemperink, Virginia Leonard, Claire Lindner, Linda Lopez, Claire Mayet, Jongjin Park, Sarah Pschorn, Irina Razumovskaya, Andrea Sala, Priyanka Sharma, John Shea, Alice Walton. Mentre i designer esposti saranno Mar De Dios, Romina Gris Ormo, Yves Perrella, Claudio Pulicati, Aliki van der Kruijs.
Si tratta di 24 finalisti del premio Open to Art, selezionati, tra più di 400 candidati provenienti da 45 nazioni, da una giuria internazionale composta da otto professionisti dell’arte e del design. Il 13 febbraio, infatti, durante l’inaugurazione della collettiva, esito della call del premio, la giuria annuncerà i vincitori degli otto premi in palio. I due primi premi, del valore di 5mila euro, andranno ai due artisti che si sono distinti per ricerca, tecnica e originalità nelle rispettive categorie di partecipazione, arte e design. Ulteriori sei premi Residenza saranno annunciati, in collaborazione con Sundaymorning@ekwc, International Ceramic Research Center Guldagergaard, Museo Carlo Zauli, International Ceramic Art Festival in Sasama, Amfora e la città di Seinäjoki, e il Museo della Ceramica di Mondovì. Ce ne parla Laura Borghi, fondatrice tanto di Open to Art quanto di Officine Saffi.
Chi sono stati i vincitori delle scorse edizioni? Con quali motivazioni?
Nel 2013, prima edizione del premio, sono stati premiati Zsolt Jozsef Simon (Ungheria, 1973) per l’arte e Margareta Daepp (Svizzera, 1959) per il design. Figure di generazioni diverse che si sono caratterizzate per due grandi scommesse intellettuali: Simon dialoga da pari a pari con la miglior ricerca scultorea contemporanea, Daepp declina un recupero delle ragioni del decorare in seno a una produzione in piccola serie. Nel 2016 è stata la volta di Frank Louis (Germania, 1966) per la categoria arte e Andrea Walsh (Inghilterra, 1974) per il design. Il lavoro di Frank Louis, definito dalla giuria un esploratore dalla mente aperta, cerca di disorientare la capacità percettiva dello spettatore. Andrea Walsh ha invece colpito per la sua eccezionale tecnica e visione in grado di trasformare i diversi materiali (vetro, ceramica, metalli preziosi) in oggetti immortali, che sembrano provenire dal futuro, nei quali gioca con la purezza e la traslucenza.
Come si è evoluto, lungo il corso di tre edizioni, il premio Open to Art e come si sono trasformate le intenzioni negli ultimi sei anni?
L’obiettivo del concorso è lo stesso di sei anni fa: rappresentare quanto oggi si va agitando nel territorio ben vivo della ricerca ceramica, un ambito cui troppo spesso il luogo comune attribuisce tendenze conservative e che invece si rivela tutt’altro che secondario in seno all’arte contemporanea e al design.
Dal punto di vista tecnico, come distinguere i lavori tra le categorie arte e design? Potrebbe proporre qualche esempio?
Il confine tra arte e design nel mondo della ceramica è molto sottile. Nel corso degli anni ci siamo resi conto che le candidature erano spesso confuse, per questo motivo, per la terza edizione, abbiamo cercato di definire meglio le categorie di partecipazione. Le opere di design che il pubblico vedrà in mostra si relazionano quindi, anche se solo in minima parte, con le logiche di produzione e funzionalità. Ad esempio, le opere di Claudio Pulicati (design) si distinguono per ricerca tecnica e concettuale, ma si completano nel momento in cui accolgono un fiore. Il vaso-autoritratto di Virginia Leonard (arte) non servirà mai a enfatizzare un mazzo di rose, ma ci narra la bellezza di uno degli aspetti più estremi della vita, il dolore. Sono due ricerche diverse, ma entrambe legittime.
Quest’anno avete avuto oltre 400 candidati e una rosa di selezionati di appena 24 partecipanti. Secondo la sua opinione, esistono caratteristiche, tendenze/visioni che li accomunano?
In questa edizione è emerso un elevato livello di competenza artistica confermato dalla qualità dei lavori proposti, molti dei quali realizzati da giovani artisti. È prevalso il colore e un’interessante e vivace ricerca scultorea.
A colpo d’occhio, come sarà la mostra che vedrà i lavori di tutti i finalisti in galleria? Quale paesaggio estetico prenderà forma negli spazi di Officine Saffi?
È una mostra eterogenea, gioiosamente satura, stimolante, che presenta al pubblico una panoramica esaustiva sulle ricerche attuali. Smalti dai colori sgargianti e vivaci, sculture dalla forma rigorosa si confrontano con altre dalla forma organica e dinamica, e altre ancora nelle quali prevalgono motivi geometrici brillanti. Il visitatore non rimarrà di sicuro indifferente.
Attraverso i lavori di Salvatore Arancio, ma anche di John Shea, Linda Lopez e Claudio Pulicati, quali storie, quali aneddoti, quali nuove o antiche tecniche torna a raccontare la ceramica?
Dalle opere di questi artisti scaturiscono diverse narrazioni. L’aspetto più naif, quello anarchico ma anche la meticolosità del movimento quando la materia si trasforma e diventa oggetto discreto, ma con una forte personalità. La ceramica è materia viva che palesa il racconto del suo demiurgo.
Potrebbe esprimere un pensiero o formulare una chiave di lettura che accompagni il visitatore?
Apprezzare i gradi diversi di manualità e artigianalità e intendere il mondo della ceramica come un territorio aperto di cui è importante cogliere le tensioni intellettuali, operative e il rapporto dialettico tra identità storica e proiezioni sperimentali. Da questo punto di vista la scelta della rosa dei finalisti indica un orizzonte entusiasmante e plurale.
‒ Ginevra Bria
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