Da quando il collettivo Assemble ha vinto il Turner Prize, l’interesse verso le esperienze di progettazione condotte in comunità e per la comunità, come quelle al centro di Design Collisions, sembra essere rifiorito. Perché questa mostra arriva proprio ora?
Viviamo in un momento di grandissime divisioni politiche e sociali. L’idea è far vedere come progetti nati dalla collettività per la collettività possano funzionare come antidoto alle narrative divisive. Raccontiamo come il dialogo possa nascere anche laddove le posizioni paiono diametralmente opposte. Ogni progetto fa capire come sia stato possibile attivare le persone su questioni di interesse collettivo. Non ci sono progetti autoriali e nulla è frutto di una mente sola.
Quali sono le premesse teoriche o gli incontri alla base della mostra?
L’idea mi era venuta parlando con Francesca Bria, chief technology officer del Comune di Barcellona e a capo di Barcellona Smart City. Lì, usando il design thinking, è sorta una piattaforma di democrazia partecipativa. I cittadini non si limitano a commentare progetti creati da qualcun altro, ma partecipano alla co-creazione attraverso un modello di educazione progressiva. Si parla di “sovranità tecnologica del cittadino”, soggetto che dispone di strumenti per prendere decisioni e partecipare attivamente alla vita politica e creativa della città. Mi sono chiesta: esistono altri modelli in cui il design viene usato in questo modo? Mi ha ispirato anche il lavoro di Marinella Senatore, che attiva davvero i cittadini nelle sue opere d’arte e questo fin dal concepimento. Lei mi ha spiegato che questa modalità trasforma il conflitto, che esiste sempre tra le persone, in un approccio dialogico. E questo è un aspetto che mi interessa molto.
Alcune esperienze collettive dimostrano limiti in relazione al “fattore tempo”: ci sono lavori che possiedono una durata circoscritta o che progressivamente perdono lo slancio iniziale. Gli esempi esposti alla Cascina Cuccagna esulano da questa categoria?
Nessuno dei progetti di Design Collisions è on/off e nessuno è in una fase di lancio. Sono già iniziati da tempo, attualmente sono in corso e andranno avanti. Intendo far vedere la sostenibilità di un certo tipo di approccio nel tempo e cosa ha permesso che funzionassero. In molti casi, i diretti interessati mi hanno raccontato che l’umiltà e la capacità di ascolto dei gruppi di iniziatori si sono rivelati fondamentali per la durata dell’attività. Ci sono progetti legati al tema dell’ambiente, della salute, dell’iperautomazione, dell’industria 4.0 e altri ancora: chi legge i miei articoli li conosce già, perché ho scritto di quasi tutti.
Non c’è alcun conflitto tra questa prospettiva di analisi e la figura “tradizionale” del designer?
Non voglio proporre questo modello di design come alternativo a quello classico. Piuttosto vorrei far capire che il design non è soltanto quello a cui si pensa sempre: un oggetto, un servizio, un’esperienza. Cerchiamo piuttosto di intenderlo come progettazione, come possibilità di pensare in modo diverso e di coinvolgere le persone verso certe modalità di agire. Di diverso rispetto al design tradizionale c’è che siamo di fronte a gesti collettivi e continuativi.
Design Collisions fa parte del progetto De Rerum Natura ‒ Rinascimento, a cura di Cascina Cuccagna e Matteo Ragni Design Studio. Credi che le testimonianze selezionate possano agire contro la deriva sociale contemporanea, supportando il concetto “restiamo umani”?
Quest’anno De Rerum Natura si lega con le celebrazioni leonardiane. Su invito di Matteo Ragni ho iniziato a riflettere sul tema e mi sono resa conto che oggi il vero Umanesimo, forse, significa non mettere più l’uomo, come singolo, al centro: del resto siamo già nell’Antropocene! È la collettività che andrebbe collocata al centro. Da qui la volontà di mostrare progetti che intendono essere contrari alla dialettica dell’odio, del risentimento e della divisione. E che, in qualche modo, provano a ricucire fratture sociali, economiche, politiche.
Parlaci dell’allestimento.
Abbiamo pochi oggetti; ci sono anche video e testi. Ho strutturato la comunicazione attraverso domande e risposte, ogni progetto è presentato attraverso brevi quesiti: che cos’è? Perché è presente? Qual è la sua relazione con il design? Perché è collettivo? Vorremmo davvero parlare a tutti, rendendo queste tematiche di dominio pubblico, popolari: idee e proposte da tradurre in azioni nel proprio quartiere, da estendere alla propria città. L’allestimento è curato da Matteo Ragni Studio.
Com’è il passaggio dall’ambito giornalistico a quello curatoriale? Qual è la percezione del Fuorisalone non come cronista, ma con un progetto curatoriale all’attivo?
È molto più complicato di quanto mi aspettassi! [ride, N.d.R.] Ma anche esaltante e divertente. Per me è un po’ come se fosse la rappresentazione fisica di un articolo, o un’inchiesta, avendo già scritto di quasi tutti i progetti. Credo che l’esperienza giornalistica sia fondamentale per fare questo genere di operazioni, soprattutto per cercare di spiegare i concetti nel modo più chiaro.
Cosa sarà di Design Collisions dopo il 14 aprile, giorno della chiusura?
Mi piacerebbe diventasse un appuntamento strutturato, una sorta di punto di incontro su queste tematiche. Proprio come i progetti presentati continuano a vivere e a crescere, vorrei trasformarlo in un’azione continuativa.
‒ Valentina Silvestrini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #48 ‒ Speciale Design 2019
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