Il digitale al servizio del racconto. Intervista a DotDotDot
Conosciuti ormai come la punta di diamante dell'exhibit design interattivo, immersivo e digitale, i Dotdotdot, freschi autori di una delle installazioni più belle al Salone del Mobile 2019, ci raccontano il loro percorso di crescita tra passato, presente, futuro e, naturalmente, nuove tecnologie. Parola a Laura Dellamotta, architetta e carismatica socia fondatrice dello studio, che, insieme a Giovanna Gardi, Alessandro Masserdotti e Fabrizio Pignoloni, dice: “Per noi la tecnologia è a supporto del racconto, non il fine”.
Partiamo subito dal vostro ultimo progetto per l’appena concluso Salone del Mobile 2019: un grande wall interattivo realizzato per B&B Italia, Flos e Louis Poulsen che racconta la storia del brand attraverso alcuni dei suoi protagonisti e dei suoi prodotti iconici. Diteci tutto, era bellissimo!
Un progetto divertente, ideato insieme a Design Holding. Molto semplice e intuitivo nell’utilizzo, ma di grande effetto. Come tutte le cose semplici, nasconde una grande complessità e ricerca sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista della user experience e dell’hardware. Per quanto riguarda i contenuti, si è deciso, insieme all’azienda, di raccontare aneddoti divertenti in più di quaranta storie di designer e progetti, così da parlare a un pubblico allargato in modo trasversale e leggero, senza un percorso lineare: ciascuno poteva fruire una o più storie in un contesto frenetico come la fiera, rilassandosi e giocando. La user experience è molto intuitiva: un semplice “tocco” attivava le animazioni più inaspettate. La parte fisica dell’installazione coinvolge attivamente il visitatore e dà valore simbolico all’azione che attiva la narrazione dei contenuti digitali, producendo un risultato sorprendente. Il sistema hardware del wall interattivo, non visibile, è invece complesso: 28 videoproiettori per fare il mapping delle 40 storie illustrate e più di 30 punti interattivi che nascondevano un sistema di sensoristica. Abbiamo progettato il sistema più efficace per non distogliere l’attenzione del visitatore dal contenuto.
Anticipazioni #1: a breve verrà svelato a Trezzo sull’Adda il progetto che state portando avanti per Enel Green Power in cui, con un percorso interattivo complesso, raccontate al visitatore le cinque fonti di energia pulita.
Cerchiamo sempre di fare in modo che il visitatore sia in empatia con le tematiche delle installazioni, attraverso lo sviluppo di un racconto e di un’esperienza unica all’interno dello spazio. Lo storytelling ha per noi un ruolo fondamentale, è alla base del progetto e solitamente lo costruiamo e co-progettiamo insieme al cliente. Nel caso di Enel Green Power, lo abbiamo sviluppato con lo studio Storyfactory. L’obiettivo è coinvolgere direttamente il visitatore in un percorso dove possa imparare divertendosi.
Un tema caldo e ormai importantissimo. In che modo il vostro design risponde a questo tipo di sfide?
Le cinque fonti di energia rinnovabili diventano dei personaggi, ognuno con una voce e un carattere. Il pubblico può interagire con loro attraverso un complesso sistema di riconoscimento vocale posto nel caschetto della guida, che consente alle energie di rispondere in real-time alle domande. Abbiamo dedicato particolare attenzione alla progettazione di quest’interazione vocale e sonora con i personaggi perché rende l’ingaggio più realistico e il viaggio più immersivo (l’aspetto del suono, ad esempio, è una modalità di interazione molto importante in ambienti cosiddetti responsive). La narrazione può essere fruita a vari livelli poiché l’esperienza del visitatore può essere personalizzata in base al tipo di pubblico. Il percorso espositivo sarà replicato in altre centrali del gruppo Enel Green Power: la prossima sarà quella di Aquoria, nel Lazio. Abbiamo quindi realizzato un allestimento scalabile e “stand alone”, composto da moduli autoportanti e un volume a cilindro immersivo di quattro metri, che può essere allocato anche in altre situazioni.
Anticipazioni #2: a giugno è previsto l’ampliamento ‒ sempre in un percorso interattivo ‒ del museo Aboca a Sansepolcro e poi, nel 2020, vi occuperete dell’allestimento di altri musei, a oggi ancora top secret. Cosa potete anticiparci di questi progetti?
A Sansepolcro stiamo ultimando la nuova ala dell’attuale Museo Aboca che sarà un percorso interattivo nella storia dell’azienda, nelle piante medicinali e nell’attività di mecenatismo sul territorio. Stiamo progettando il percorso interattivo di un nuovo grande museo a Milano, del quale però non posso anticiparvi il nome. All’interno, oltre all’esperienza multimediale del visitatore, stiamo progettando tutta l’infrastruttura del sistema software che consentirà di personalizzare l’esperienza del museo.
In che modo avete affinato il vostro know-how digitale a servizio del racconto, spesso d’impresa?
Possiamo dire di aver consolidato un approccio alla progettazione e digitalizzazione dei musei, sia istituzionali che d’impresa, delineando nuovi paradigmi e proponendo tipologie innovative di storytelling e visitor experience. In Italia siamo di fronte a una costellazione di piccole e medie imprese, realtà particellari con un patrimonio eterogeneo di materiali, spesso non inventariato né fruibile. Per queste realtà, così come per gli archivi, il museo digitale può diventare mezzo e risorsa importante per raccontare la propria storia, il legame con un territorio, l’attività di ricerca e le trasformazioni che, senza tecnologie digitali e Interaction Design, resterebbero inaccessibili. Grazie all’Interaction Design e alle nuove tecnologie, sono molti gli scenari futuribili per il museo digitale: dalla possibilità di personalizzare e profilare la visita o i contenuti sulle caratteristiche del visitatore, al più generale tracciamento dell’utente nello spazio e alla gestione dei dati.
Quali sono i vostri riferimenti e le vostre ispirazioni?
La ricerca è una fase essenziale del nostro lavoro. Le ispirazioni arrivano da più parti, dal mondo dell’arte a quello della tecnologia passando ovviamente per il design e l’architettura. Negli ultimi quindici anni, l’Interaction Design applicato a installazioni o ambienti temporanei è diventato più diffuso, così come l’interazione con i dispositivi digitali, soprattutto in ambito corporate. E ciascun progettista ha trovato un proprio modo di raccontare contenuti attraverso le tecnologie digitali – il recente museo M9 di Mestre, a cui abbiamo partecipato anche noi, ne è un esempio. Per quanto ci riguarda, ci sentiamo vicini alla cultura opensource. Ecco perché nel 2014 abbiamo fondato anche il nostro Fab Lab: da noi la fase ideativa è sempre seguita da un riscontro pratico condiviso con il cliente. Un punto di riferimento molto importante per noi, poi, sono le community, dove troviamo non solo suggerimenti e ispirazioni per sviluppare i nostri progetti, ma anche un contributo fondamentale per la costruzione dei team progettuali.
E i vostri competitor (anche all’estero)?
Parlare di competitor risulta per noi ancora abbastanza strano. Lavoriamo da 15 anni in un ambito nuovo e in continua evoluzione. Preferiamo in realtà considerarli, piuttosto che competitor, compagni di viaggio, dato che con alcuni di loro ci confrontiamo e consigliamo. Art+Com di Berlino è una realtà con una vocazione artistica molto attenta alla qualità del risultato. UVA (United Visual Artist) di Londra ha impostato tutto il suo lavoro sulla sperimentazione e sulla ricerca.
Aperti dal 2004, a oggi vantate clienti di altissimo calibro. Che formazione avete attualmente in studio? Quali sono le professionalità diventate imprescindibili nel vostro campo d’azione?
Abbiamo fondato lo studio nel 2004, quattro soci con interessi comuni e competenze complementari. Giovanna è architetto come me, Fabrizio è designer e Alessandro ha studiato filosofia e ha competenze di ricerca e sviluppo in ambito di nuove tecnologie. Oggi siamo un team multidisciplinare che conta più di venti persone tra architetti, designer, ingegneri, informatici, grafici ed esperti di comunicazione. Collaboriamo tutti sullo stesso piano, superando le distinzioni disciplinari e condividendo competenze, conoscenze e strumenti per raggiungere l’obiettivo finale. Grazie al know–how acquisito attraverso la progettazione delle soluzioni realizzate siamo in grado di abbracciare il progetto in tutte le sue più complesse sfaccettature, facendo della ricerca e dell’innovazione la base per l’elaborazione di progetti multidisciplinari, dove gli aspetti spaziali tradizionali vengono contaminati dalle nuove tecnologie e dai nuovi media.
Come è cambiato l’approccio all’allestimento, negli anni?
Grazie all’esperienza acquisita nel tempo, abbiamo sviluppato una metodologia basata sul “learning by doing”: in ogni fase del progetto c’è la formazione, ovvero la creazione di un “tool-kit” di prototipi e conoscenze che ci consente non solo di comprendere le necessità del cliente e di costruire un linguaggio comune, ma anche di sbloccare dei momenti progettuali, appropriandosi dei giusti strumenti per la realizzazione del progetto. È una metodologia scalabile e replicabile che ci consente di aprirci anche a nuove tipologie e ambiti di progetto come ad esempio il Service Design: a oggi riusciamo ad approcciare ogni scala di intervento realizzando oggetti, spazi e architetture in grado di “percepire e rispondere” alle esigenze e richieste del cliente con un approccio human centered.
Parliamo ancora del vostro progetto “spinoff”, il Fab Lab OpenDot, in cui approfondite il mondo dei maker e della formazione.
Si tratta di un hub di ricerca e open innovation, uno spazio di progettazione e produzione dove design, tecnologie digitali e artigianato si fondono, dotato di macchine a controllo numerico come laser cutter, frese, stampanti 3D e una falegnameria. OpenDot nasce dall’esigenza di creare uno spazio per la prototipazione rapida e la sperimentazione tecnologica in una modalità condivisa. Sotto la nostra direzione strategica, si pone come punto di incontro tra nuove competenze e saperi tradizionali offrendo consulenza ad aziende, fondazioni, università, enti pubblici e privati, e sviluppa percorsi progettuali e programmi formativi ad alta complessità che hanno nell’innovazione il loro tratto caratteristico.
Avete ambiti di ricerca che prediligete affrontare nel laboratorio?
Uno dei principali ambiti di ricerca e sperimentazione di OpenDot è l’healthcare e il rapporto tra design e cura: co-progettazione, tecnologie e digital fabrication diventano strumenti per migliorare l’autonomia e l’accessibilità per una trasformazione significativa in termini di impatto sociale e responsabilità etica. In questo ambito la costruzione del progetto parte dall’ascolto di problemi o bisogni concreti, e si progetta in team multidisciplinari con medici, terapisti, infermieri, maker, designer, caregiver e pazienti.
Tre parole per descrivervi
Il nostro claim: we design innovative human experiences. In generale direi curiosità ‒ ricerca – innovazione.
‒ Giulia Mura
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