“Siate creativi a ogni costo” è lo slogan che in forma più o meno palese circola nella nostra società ad alto tasso di design. Design dell’ambiente, del corpo, dell’oggetto, del cibo, del tempo libero, della memoria, del futuro, design design… Ovunque, come un’immensa frase, il design parla di forme di vita individuali e collettive fino al paradosso: il consumatore si trasforma in una bambola gonfiabile e il design è il suo preservativo. Siamo destinati a soffrire di questa vestizione forzata di ogni interiorità ed esteriorità in cui si perpetua l’abuso del design. Che diventa un dispositivo di presa in ostaggio dell’apparenza. Liberi di scegliere solo ciò che altri hanno disegnato per noi.
Una cosa è certa: la variazione estetica della nostra esistenza – lo styling – ci seduce, come competizione di forme e come espressione. Analogo a un tormentone per ogni stagione, il design nutre l’apparenza come un ritornello senza qualità; ma sussiste come una banale canzonetta d’amore che fischiettiamo quotidianamente, e come una melodia assillante governa le nostre temporalità. Dalla serie industriale di ieri al capriccio estetico di oggi si svolge la storia del design. Ma la variazione estetica è anche un’estetica usa-e-getta, che insegue senza sosta il consumatore di apparenze, il quale – come nota Andries Van Onck – poggia su una “organica passività”, segno di una tossicodipendenza dai prodotti. Una specie di obsolescenza programmata della creatività, la quale vive e sopravvive qualificando temporaneamente la quantità (la merce). Da tecnico al servizio dell’imprenditore, il designer è ora un educatore al servizio della società di controllo, come diagnosticò Deleuze, lavora per l’integrazione tramite esercizi di conformismo estetico. L’utopia di un design “antropocentrico”, come auspica Donald Norman, richiede qualcuno che “insegni” o indichi ciò che occorre per soddisfare l’impresa della propria apparenza. Il design del quotidiano però non è neutrale. Si tratta sempre di “formare” o “migliorare” la vita degli altri. Foucault chiamava questo atteggiamento “tattiche e figure disciplinari a domicilio”.
“Il consumatore si trasforma in una bambola gonfiabile e il design è il suo preservativo.”
D’altra parte, la cultura materiale domestica e sociale ci istruisce sulle funzioni e sui processi di condizionamento antropotecnici. Tomás Maldonado, sulla scia di Friederich Dessauer (filosofo della tecnica), osserva che “il fine della produzione di locomotive non è la locomotiva, ma il trasporto”. Si tratta di decidere quali “bisogni” soddisfare: la cosa in sé o la cosa per me.
Tuttavia, sorge una questione: l’assenza di progettazione è un lusso intellettuale della società dei consumi. Le masse sommerse dalla precarietà non hanno tempo da dedicare a questa “libertà”. Si tratta di impossessarsi delle attrezzature che consentano di fabbricare le proprie forme di vita, allo stesso modo di un operaio che s’impossessa dei mezzi di produzione. Breton suggeriva un’altra via: trasformare un cucchiaio in scarpetta.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati