Architettura, design e imprevedibilità. Intervista ad Andrea Branzi
Dall’architettura radicale di Archizoom ai miti (e ai riti) della professione, una chiacchierata con uno dei maestri del design. La parola chiave, quella che ritorna più spesso, è imprevedibilità, del progetto ‒ frutto nella maggior parte dei casi di processi non del tutto controllabili ‒ e della sua ricezione da parte della società.
Architetto, designer, docente, storico e teorico, autore di testi cardine sul design italiano, Andrea Branzi (Firenze, 1938) è una figura di intellettuale e creativo a tutto tondo. Fin dagli inizi della sua attività con il movimento Archizoom, del quale è stato uno dei fondatori, Branzi ha osservato con approccio critico il mondo del progetto, scandagliandone i diversi aspetti e mettendo in discussione la società e i suoi miti consolidati. Per esempio con No-Stop City, una ricerca su ambiente urbano e cultura di massa pubblicata per la prima volta sulla rivista Casabella (con un titolo diverso, più complesso), e un’utopia critica basata sull’immagine della città trasformata in “struttura residenziale continua”, priva di vuoti, organizzata razionalmente come una fabbrica o un supermercato. Oggi, come allora, è uno degli interpreti più lucidi e acuti della realtà che ci circonda. Abbiamo avuto occasione di intervistarlo per ripercorrere insieme alcuni dei momenti più importanti della sua carriera creativa e accademica, per tracciare un ritratto, seppure abbozzato, di una delle figure più complesse e autorevoli del mondo del design.
Professore, che cos’è oggi il design?
Il design oggi è un’attività molto complessa e contraddittoria, in parte legata alla creatività e in parte legata alla professionalità.
C’è chi sostiene, come fa ad esempio Chiara Alessi, che le icone non esistono, che abbiamo perso la visione storicizzata degli oggetti che fanno e hanno fatto il nostro quotidiano. Secondo lei quando un oggetto diventa un’icona?
In generale quando riesce ad affermare la sua identità commerciale ma non sempre è il risultato di un processo controllabile. È vero che abbiamo perso l’approccio problematico nei confronti di questi oggetti, non abbiamo più uno sguardo critico, da questo punto di vista potremmo dire che le icone non esistono più.
Qual è, secondo lei, un oggetto di design che ha fatto la Storia?
Molti oggetti di design hanno avuto successo per motivi imprevedibili o per cause accidentali. Tutti conosciamo aneddoti di questo genere che riguardano i fratelli Castiglioni, Ettore Sottsass Jr. e altri ancora. Molto spesso la Storia è il risultato della casualità e non il risultato di un processo prevedibile. Un esempio è costituito dal lavoro imprevisto da parte del giapponese Shiro Kuramata, con la sedia di rose immerse nel plexiglas Miss Blanche.
Parliamo del Giappone. Come ha influenzato il suo linguaggio?
Ho sempre avuto una relazione molto intensa con la cultura giapponese, attraverso la collaborazione con Arata Isozaki, Shiro Kuramata, Toyo Ito, Kazuyo Sejima, Kenya Hara. Lo scambio con queste personalità ha molto influenzato il mio approccio.
Lei è stato il fondatore di Domus Academy, il primo istituto post-universitario di design. Qual è il ruolo delle università oggi e quali prospettive reali hanno i ragazzi che si formano nel product design?
È molto difficile scegliere una strategia universitaria capace di risolvere i problemi dell’insegnamento. È molto importante infatti insegnare agli studenti a essere degli autodidatti, capaci di formare sé stessi, più che apprendere formule consolidate.
Abbiamo aspettato a lungo per avere un luogo che raccontasse la storia del design italiano e adesso sappiamo che ne avremo due: da un lato l’allestimento permanente alla Triennale, inaugurato quest’anno e del cui comitato scientifico lei fa parte, e, dall’altro lato, il Museo del Compasso d’Oro ADI, in via di sviluppo. Perché in Italia è così difficile avere uno spazio rappresentativo del ruolo determinante che il nostro Paese e Milano in particolare hanno avuto nella nascita del design?
In Italia è sempre stato difficile insegnare la storia e la professione del design. Io ho inoltrato la proposta di non considerare più il museo come punto di riferimento ma piuttosto la storia del progetto italiano, e la Triennale sta riflettendo proprio su questa possibilità di superare la formula del museo del design per sostituirlo con l’idea di rappresentare la storia del progetto italiano. Le vicende del Compasso d’Oro costituiscono una realtà autonoma, legata più alle imprese produttive.
È nata recentemente l’agenzia per il sistema design, promossa dal Ministero dei Beni Culturali, che si unisce al programma di tutela del made in Italy, anch’esso ministeriale. Pensa che una governance attenta sia in grado di far tornare il design a essere un motore produttivo in Italia?
È molto difficile governare questo complesso sistema di relazioni e di strategie, perché in gran parte il successo del design è legato a vicende imprevedibili, risultato di una creatività sperimentale, non facilmente controllabile.
Quali ricordi conserva dell’attività di Archizoom?
La storia di Archizoom ha avuto origine nel 1966 e ha rappresentato un evento il cui risultato, imprevedibile, è stata la nascita del movimento radical in Italia e in molti altri Paesi internazionali. In questo senso questo risultato continua ancora oggi ad avere una rilevanza storica.
Dopo la No Stop City, adesso quale città immagina per il futuro?
Io non immagino nessuna città adeguata, perché ogni città risulta del tutto diversa da altre realtà storiche. Ogni architettura e ogni città costituisce un’eccezione non ripetibile.
Se dovesse indicare tre architetture internazionali che, negli ultimi anni, hanno lasciato un segno forte in una città, quali indicherebbe?
Le architetture che apprezzo sono sempre il risultato di una imprevedibilità. Non ci sono mai risultati definitivi.
Tre Compassi d’Oro più uno alla carriera, una laura onoris causa alla Sapienza, più recentemente il premio Royal Swedish Academies of Fine Arts, Music and Sciences. Sono molti i riconoscimenti che ha ricevuto, ma quale le ha dato maggiore emozione? Cosa ricorda con maggiore soddisfazione?
Il progetto della mia tesi di laurea in radical design, intitolato Solid Rock.
‒ Isabella Clara Sciacca
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