Intervista ad Anty Pansera, Compasso d’Oro alla carriera 2020
La storica e critica dell’arte Anty Pansera ha ricevuto il più autorevole premio di design in ambito internazionale per il suo “impegno mai dogmatico ma sempre impegnato nel calare la cultura del progetto in territori professionali ampi”. Ci ha raccontato il suo percorso, dall’incontro con i grandi maestri del dopoguerra alla valorizzazione della creatività femminile.
L’originalità dello sguardo di Anty Pansera (Milano, 1948) sul mondo del progetto è il primo elemento al quale la giuria del Compasso d’Oro ADI ha fatto riferimento poche settimane fa, nel redigere le righe che avrebbero accompagnato la consegna del premio alla carriera. Attenta osservatrice del sistema design, impegnata nell’insegnamento (al Politecnico di Milano, all’Accademia di Brera, allo IULM e, come presidente dal 2010 al 2016, all’ISIA di Faenza) e nella divulgazione con piglio militante, autrice di libri importanti come l’Atlante del design italiano 1940-1980 (1980, a quattro mani con Alfonso Grassi) e Il disegno del mobile italiano. Dal 1946 a oggi (1990), la studiosa milanese ha, infatti, sempre rivendicato la sua formazione classica e l’uso degli strumenti propri degli storici dell’arte. Abbiamo ripercorso con lei le tappe principali della sua vicenda professionale e ci siamo fatti raccontare che cosa contiene questa “cassetta degli attrezzi”.
INTERVISTA AD ANTY PANSERA
Ripercorriamo insieme la sua storia. Com’è arrivata al design?
Quando mi sono laureata, nel 1971, ho insistito molto per avere una tesi su fine Ottocento. Non era scontato ottenerla, allora nel nostro Istituto ‒ il Paolo D’Ancona della Statale di Milano ‒ la scelta era generalmente tra Leonardo e Bramante. In realtà, mi sarebbe piaciuto lavorare sul Futurismo, in particolare su Cesare Andreoni, che era lo zio di mia mamma e uno dei pochi futuristi milanesi, ma quando ho pronunciato la parola “Futurismo” l’Istituto è crollato [ride, N.d.R.]. Dopo la laurea ho avuto una supplenza al liceo artistico di Brera, e poi, grazie al consiglio di una collega, ho fatto domanda per insegnare all’ISA di Monza (il liceo artistico della Villa Reale, intitolato a Nanni Valentini dal 2014). Una scuola della quale a Milano, all’epoca, non si sapeva neppure l’esistenza e che per me è stata un’esperienza bellissima.
Lì ha trovato un approccio decisamente più pratico…
All’inizio fu uno choc tremendo. Sono arrivata con il mio bagaglio da storica dell’arte, ma con poca conoscenza del Novecento, e ho trovato persone che parlavano di design, di progetto, che facevano dei discorsi per me incredibili. Mi sono dovuta tirare su le maniche, anche perché la scuola aveva un indirizzo sperimentale e noi insegnanti di storia dell’arte dovevamo essere complementari con i colleghi di progetto. Il direttore della scuola era l’ultimo presidente del Movimento di Studi per l’Architettura, c’erano AG Fronzoni, Alfonso Grassi… mi hanno adottata e ho cominciato a frequentare il mondo del progetto milanese. Ho avuto degli incontri straordinari, con grandi personaggi che oggi ci hanno lasciato (Achille Castiglioni, Marco Zanuso, Gae Aulenti…) ma, devo dire, senza la consapevolezza di stare vivendo un momento irripetibile. Ho fatto un primo lavoro sulla Triennale, in seguito, negli Anni Ottanta, ho cominciato a insegnare all’università, a Palermo (con Anna Maria Fundarò) e poi a Milano, al Politecnico e all’Accademia di Brera.
All’epoca non c’erano molti storici dell’arte che sceglievano di dedicarsi al design?
Nessuno. Gillo Dorfles, con cui avevo fatto due esami di estetica all’università, mi ha detto: “Ricordati che questa scelta che stai facendo ti taglierà fuori dall’università”, proprio perché all’epoca le arti decorative applicate e il design non erano una scelta scontata. Lui stesso ha avuto moltissimi problemi dal punto di vista accademico.
DALLA STORIA DELL’ARTE AL DESIGN
Da un punto di vista metodologico, che cosa significa applicare il metodo della storia dell’arte al design?
Vuol dire innanzitutto fare una contestualizzazione di carattere sociale, capire per esempio perché si sia usato un certo materiale in un determinato periodo storico. Per la mia generazione è stata fondamentale la Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser: era stata da poco tradotta in italiano e ha avuto un impatto dirompente su di noi, aiutandoci a superare le teorie della percezione e della pura visibilità che ci stavano un po’ strette. Per questo, e forse anche perché uscivamo dall’esperienza del Sessantotto, mi sono trovata ad avere un rapporto militante con gli oggetti del mio studio, a sentire l’esigenza di andare nelle aziende o negli studi e toccare con mano…
Vuol dire anche comprendere il rapporto figurativo dell’oggetto di design con la ricerca contemporanea. Senza la conoscenza, per esempio, del minimalismo o dell’arte concettuale, sarebbe difficile capire appieno un oggetto come il Black di Zanuso (si tratta del televisore Black ST/ 201 di Brionvega, un cubo nero enigmatico che svela la sua funzione soltanto quando si accende, disegnato da Marco Zanuso con Richard Sapper nel 1969).
Oggi la maggior parte dei critici ha una formazione più tecnica, molti sono laureati in architettura o praticano la professione. Che cosa ne pensa?
I designer e gli architetti scrivono facendo riferimento alla propria progettualità, vedono il proprio linguaggio espressivo come un punto di arrivo dei linguaggi precedenti. È una cosa che si vede chiaramente, per esempio, nei libri di Andrea Branzi. Enrico Baj ha scritto un libro bellissimo [Automitobiografia, del 1983, N.d.R.], con la consapevolezza di non essere né uno storico né un critico d’arte, ma un artista, con un suo linguaggio assolutamente palese, e di andare a rivisitare ciò che aveva prodotto il passato dal suo punto di vista. Una consapevolezza che gli architetti e i designer non sempre hanno.
LE DONNE E IL DESIGN
Che consiglio darebbe, oggi, a chi desidera scrivere di design?
Di studiare la storia. Quello che noto in giro oggi è che si conosce poco il passato, o meglio, si conosce poco in che modo il passato ha prodotto determinati oggetti. Avere perso la Seconda Guerra Mondiale, per esempio, ha voluto dire firmare un trattato molto penalizzante e dover fare tutta una serie di rinunce, per esempio alla pressurizzazione degli aerei. La scarsità di risorse ha portato i creativi italiani a cercare degli escamotage, a riutilizzare in maniera brillante materiali che venivano dall’industria bellica e che ci hanno fatti diventare grandi negli Anni Cinquanta e Sessanta. Il cocoon [un rivestimento polimerico spruzzabile, N.d.R.], che è arrivato poi nel mondo del design grazie ai fratelli Castiglioni e alla Flos, era stato inventato dagli americani che lo usavano per proteggere i carri armati e gli armamenti trasportati sulle navi. Anche il plexiglass venne recuperato dal mondo dell’aviazione, dove era usato per i cupolini dei caccia.
Ha fondato e presiede un’associazione, D come design, che promuove la creatività femminile. Tentiamo un bilancio della situazione delle donne nella professione?
Mi sono accorta di questa realtà piuttosto tardi, nel 2001, quando l’UDI mi ha proposto di curare la decima edizione della Biennale Donna sul tema “Donne e design”. Non sapendo se accettare o meno, ho fatto tre telefonate: a Gae Aulenti, che mi ha risposto “Ma tu sei matta come un cavallo!”, a Cini Boeri, che si è mostrata possibilista, e ad Anna Castelli Ferrieri, che è stata anche la prima donna presidente dell’ADI ed era entusiasta dell’idea. La mostra poi si è fatta e ha avuto come titolo Dal merletto alla motocicletta. Mi sono sempre occupata poco, invece, delle donne della comunicazione, che rispetto al product o all’interior è un mondo più complesso e più sfuggente ma non meno intrigante, e in futuro vorrei rimediare a questa lacuna. Comunque sia, sono convinta che le donne abbiano una sensibilità maggiore per molti aspetti del fare e dell’usare i prodotti, e anche che, nonostante ciò, per avere dei riconoscimenti debbano ancora oggi essere un po’ più brave degli uomini.
‒ Giulia Marani
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