Parola ai designer #10. The Design Cut, i progettisti delle parole
Per l’intervista numero dieci della rubrica “Parola ai designer”sovvertiamo i paradigmi utilizzati finora. Non diamo la parola a un designer, ma raccontiamo cosa voglia dire, oggi, design della parola, con due protagonisti d'eccezione, attivi nel settore da tempo: Laura Traldi e Paolo Casicci
Accomunati dall’avere una lunga storia di giornalismo alle spalle, per testate specializzate e non, italiane e straniere, digitali e cartacee, Laura Traldi e Paolo Casicci da poco condividono anche un altro progetto insieme, sull’asse Roma-Milano: The design cut, agenzia che offre consulenze strategiche, produce contenuti e si occupa di trovare il giusto taglio e le parole da usare per comunicare al meglio. Specialmente nel design. Con loro abbiamo avuto una lunga conversazione a tre voci, per capire dove sta andando lo storytelling di prodotto, il suo valore culturale oggi, e come i brand, per contare, debbano imparare a metterci la faccia.
Partiamo da una domanda facile. Design e comunicazione: tutto si può narrare?
Come tutto non è degno di essere prodotto, così non tutto va comunicato. Esiste una soglia di rispetto verso il pubblico sotto la quale non si può andare. La discriminante? Il riconoscimento di valore, ciò che dà senso e significato. Per valutarlo è utile saper ascoltare persone, oggetti e situazioni e trovare potenziali e inesplorati match. Le persone sono interessate a ciò che le tocca davvero: da un punto di vista emotivo, psicologico, di ispirazione, ma anche economico, sociale, geografico. Un comunicatore deve avere una sincera curiosità per quello che sta intorno e saper trovare angoli di senso su cui incentrare il racconto. Può anche succedere che non ci sia, ovviamente. E in tal caso ci sarebbe qualcosa di sbagliato nel comunicare.
The Design Cut, come nasce e perché?
L’essenza di quello che siamo è nel nome, che abbiamo scelto ispirandoci alla pubblicazione del New York Times “The Cut”, incentrata su autorevolezza, selezione e qualità. Il nostro pensiero nasce dalla constatazione che il design è ovunque, perché tutto quello che ci circonda viene progettato. Ma che la questione è: viene progettato bene o male? Alla maggior parte delle persone questa differenza sfugge e il giudizio sul progetto si arresta a forma, tendenza, stile. Tutto ciò non è solo penalizzante per l’ambiente, ma anche per chi investe seriamente nel buon design. Con The Design Cut aiutiamo queste realtà a raccontare il loro valore aggiunto reale, con un linguaggio chiaro e trasparente, evitando accuratamente quel parlarsi addosso così tipico del nostro mondo. Ci consideriamo anche dei collegatori di puntini: cerchiamo di fare sistema tra aziende e designer partendo dal racconto (cioè dalla vera natura del marchio in questione).
Per due che come voi intendono la content curation come una forma di progettualità, cosa significa storytelling per i brand, oggi? Cosa è diventato davvero importante?
Viviamo nell’era della disintermediazione e della condivisione, in cui è fondamentale comunicare con autenticità, generosità e coraggio. Chi ci mette la faccia – persone e brand – funziona, a livello di comunicazione, se riesce a parlare a gruppi – le community – con cui condivide un sistema di valori. Ecco perché, sempre di più, i marchi sono diventati editori di se stessi, e rispondono in prima linea per quello che dicono e fanno, oltre che stimolare la consapevolezza del pubblico, sempre più informato e protagonista. Un vero racconto di un marchio è un progetto che integra tutto quello che un’azienda esprime: dal prodotto alla comunicazione, ma anche includendo il servizio e l’esperienza che avviene in tutti i touchpoint(negozi, social, pubblicità). E il filo conduttore di questo racconto deve essere ben pensato a monte e soprattutto vero, onesto, legato a quello che l’impresa realmente è e aspira a essere. Capire quale sia questo filo conduttore è il nostro lavoro.
Parliamo in particolare di due progetti che state portando avanti, quello per PdiPigna e quello per Abet laminati. Due aziende molto diverse tra loro ma accomunate dall’avere, entrambe, una storia legata al Made in Italy e ai valori delle cose ben fatte. Raccontateci di più.
Pigna, che da 180 anni è sinonimo di scuola con i suoi quaderni, agende, accessori per la scrittura, voleva entrare nel mondo della stationery per adulti creando un nuovo marchio. Noi siamo stati reclutati dall’art director, Matteo Ragni,che ha messo insieme una squadra che comprendeva, oltre a noi, anche Alessandro Boscarinoper la corporate identity. Abbiamo aiutato Pigna a focalizzarsi su un concept – analogico ma non anacronistico – di slow writing, cioè a parlare con chi usa o vorrebbe usare la scrittura per scoprirsi e scoprire il mondo. Senza negare il digitale ma superandolo per scelta. Per sottolineare questo posizionamento, abbiamo stilato un manifesto in 8 punti, raccontati poi, sui social, da altrettanti ambassador (selezionati con l’agenzia di comunicazione Akuna Matata) provenienti da mondi molto diversi tra loro, a simboleggiare che il design è trasversalità, dialogo, cultura.
E Abet?
Con Abet, invece, stiamo lavorando su due fronti. Siamo partiti con l’introduzione di un payoff che racconta quello che l’azienda effettivamente è: “the design choice”, la scelta progettuale, da decenni, dei più importanti designer internazionali. Il secondo fronte è invece legato a un progetto di ricerca, Super Superfici, i cui risultati verranno presentati a inizio 2021, in occasione dei 40 anni di Memphis. Per questo la domanda che i curatori di Abet, Giulio Iacchetti e Matteo Ragni hanno posto a 8 studi di design è stata pensare a come si esprimerebbe oggi lo “spirito di Memphis”. Lo stanno facendo cimentandosi nella creazione di manufatti da realizzare utilizzando quel mondo di infinite possibilità che è lamaterial library di Abet. E siccome il valore di un progetto di ricerca non è solo il risultato ma soprattutto il percorso, The Design Cut sta raccontando il tutto attraverso un “diario di bordo” sui social che si focalizza sul come più che sulla cosa.
Entrambi abbinate all’attività di scrittura quella didattica (Naba di Milano per Laura, Isia, Sapienza e Quasar per Paolo, a Roma). Pensate che avere a che fare con la formazione sia parte integrante di questo processo che vi obbliga costantemente a guardare il mondo in maniera diversa?
PC: Assolutamente. L’approccio che siamo tenuti ad avere come docenti implica una grande responsabilità, di trasparenza e metodo. Per quanto mi riguarda avere a che fare con gli studenti vuol dire innanzitutto, per questioni anagrafiche, aggiornamento costante e poi essere per loro fonte di ispirazione: non si tratta più di trasmettere mere nozioni, ma di accendere nelle loro teste dei ragionamenti. Oggi con cosa si misurano i designer? Che responsabilità hanno verso il mondo, l’ambiente, la società e l’economia?
LT: Insegnare Design per l’Economia Circolare alla NABA è un impegno fondamentale per me. Non solo perché mi ha costretta a mettere insieme tante nozioni, esempi e strategia progettuali – confrontandomi con esperti e aziende – o per lo scambio con gli studenti che trovo affascinante e arricchente. Credo che formare i giovani ad avere uno sguardo diverso – di senso – sul design sia compito di tutti noi professionisti del settore se vogliamo davvero migliorare il mondo in cui viviamo.
Avete da consigliare riviste o piattaforme di riferimento cui è fondamentale guardare per essere aggiornati sul design?
Non è facile rispondere perché non ci sono più le riviste di riferimento uniche ma un panorama variegato, on e offline, a cui indirizzarsi. Quello che ci piace sono le pubblicazioni che parlano di design ma non solo nel senso classico del termine. Come Inventario, Fast Company, Wired, Rivista Studio. Quello che apprezziamo nel giornalismo oggi è chi prende una posizione informata, con coraggio e trasparenza. Abbiamo tentato di farlo con i nostri blog (Cieloterradesign e Designatlarge). E con Interni Design Journal, a cui lavoriamo entrambi, che a ogni numero tratta di un tema apparentemente slegato dal mondo del design ma analizzato dal punto di vista progettuale.
In che modo, secondo voi, una realtà come Netflix ha influenzato il modo di raccontare il design?
Il modo lo stiamo ancora scoprendo, ma di certo lo ha influenzato. In primis sulla capacità di divulgazione e di amplificare un dato messaggio. Su Netflix, accanto alle serie, si trovano moltissimi contenuti di qualità sul design. Ma è l’offerta che tende alla sartorialità a spingere un modello che si fa strada anche in altri consumi culturali.
Avete un progetto nel cassetto?
Per noi, il design è sempre stato l’appagamento di una curiosità e la sua restituzione al mondo. Ecco perché il nostro sogno è quello di creare un magazine sul progetto in cui la parola design non compaia mai, ma ne sia la filigrana. Un magazine che parli (con un linguaggio comprensibile a tutti) del valore dell’intelligenza progettuale nei prodotti ma anche nella vita, spaziando dal product al service design. Perché è solo spiegando alle persone perché una cosa vale più di un’altra che il design continuerà ad avere una ragion d’essere.
– Giulia Mura
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