Luca Nichetto e Wittman. Un connubio perfetto tra tradizione e sperimentazione
Muoversi dall’epoca d’oro del design austriaco verso la contemporaneità, senza “perdere il filo” e senza scadere nel vintage: è la missione con la quale si sta confrontando il designer veneziano Luca Nichetto, nuovo direttore artistico della storica azienda viennese del mobile
La storica azienda di mobili viennese Wittmann ha saputo rinnovarsi nel corso degli ultimi decenni grazie a collaborazioni con designer internazionali quali Paolo Piva, Jean Nouvel, Matteo Thun e Jaime Hayon. Recentemente l’italiano Luca Nichetto (Venezia, 1976) è stato nominato art director proiettando Wittmann verso inedite sperimentazioni. Abbiamo fatto con lui una lunga e stimolante chiacchierata su questa sua nuova avventura, su come concepisce la figura del designer e sui tanti progetti in corso.
Sei riuscito a creare un importante asse tra Venezia e Vienna, tra classicismo e modernità, rievocando anche Josef Hoffmann, membro fondatore delle Wiener Werkstätten, che all’inizio del Novecento riuscì a colmare il divario tra tradizione e modernità. Raccontaci della tua nuova direzione artistica.
Con i miei compagni di corso, quando cominciammo a frequentare Milano e il Salone, a metà degli anni Novanta, una delle prime tappe era sempre lo stand di Wittmann dove incontravamo Paolo Piva. Questo è stato per me il primo impatto. Poi Paolo ha smesso di insegnare, io ho finito i miei studi e ho fatto il mio percorso. Anni dopo mi sono trovato in fiera con Jaime Hayon, mio caro amico, e a lato c’era lo stand di Wittmann che, se ricordo bene, in quell’anno presentava le sedute di altissima qualità di Jörg Boner. Dopo un paio di anni, Jaime ha realizzato un rinnovamento totale, mantenendo la connotazione artigianale ma riposizionando l’azienda nel radar del design mondiale.
E poi?
Jaime ha aperto un nuovo capitolo, è arrivata Monica Förster che ha fatto una piccola collezione, poi Sebastian Herkner. Mi hanno contattato chiedendomi se ero interessato a lavorare su un brief che avevano pensato per me. Io ho detto subito sì, per me era una chiusura del cerchio dopo la direzione di Paolo Piva. Volevano realizzare un divano modulare e io gli ho pensato intorno altri oggetti, che non erano nel brief ma lo elevavano: una lounge con una griglia come schienale e dei tavolini. Intanto si avvicinava la stagione delle fiere, e uno dei prototipi, quello della lounge, era pronto prima del divano. Così abbiamo presentato Paradise Bird.
Arriviamo quindi alla pandemia.
La pandemia ha fatto rallentare il progetto e circa un anno fa abbiamo pensato di continuare ad esplorarlo. Così è nata l’idea di sviluppare dei letti, dei contenitori – era la prima volta che Wittmann affrontava questa tipologia –, dei desk per lavorare a casa e delle lampade che nascevano da un tavolino e che avevano lo stesso linguaggio. Con Alexander Sova alla direzione generale dell’azienda ci siamo trovati subito bene, e probabilmente ero la persona giusta al posto giusto e al momento giusto. Mi ha proposto di lavorare per Wittmann per i prossimi tre anni. Ci sono molte responsabilità nel proiettare un’azienda di questo tipo nel futuro. È una sfida molto interessante riuscire a traghettare in mezzo a questa tempesta un’azienda che ha delle potenzialità incredibili e che in gran parte non sono ancora espresse.
Come hai affrontato l’importante eredità dell’azienda?
C’è una grande volontà di aprirsi verso un’internazionalizzazione che secondo me è basilare. Joseph Hoffmann rappresenta il passaggio dall’artigianato al contemporaneo, che va a definire tutta una serie di caratteristiche che Wittmann ha mantenuto. È giusto secondo me mantenere le radici ben piantate in un passato che ha portato l’azienda ad essere conosciuta ancora oggi. Noi designer contemporanei dobbiamo cercare di analizzare l’epoca d’oro del design austriaco, non tanto per ripetere quello che è stato fatto, ma per cercare di trovare dei codici da poter trasportare nel futuro di Wittmann. Dobbiamo stare attenti, però, a non sconfinare nel vintage, perché non avrebbe senso.
Mentre lavoravi alla collezione Carnevale per Rubelli, eri impegnato nella realizzazione dei mobili per Wittmann e tra le due aziende è nata un’interessante collaborazione, come?
Le due aziende sono complementari e quindi mi piaceva molto poter creare questi tessuti da utilizzare anche per i mobili di Wittmann. Rubelli parte ancora prima rispetto a Wittmann, ben tre secoli prima, quindi sono entrambe delle aziende con un heritage forte, quasi classicheggiante. Ma entrambe hanno collaborato con designer contemporanei, Rubelli con Gio Ponti e più di recente con Peter Marino. Tra l’altro, Venezia e Vienna storicamente hanno avuto delle connessioni molto strette.
Hai realizzato la collezione Antigua con molteplici elementi preziosi.
Wittman nasce con un’expertise pazzesca nella lavorazione della pelle che negli ultimi dieci anni è andata un po’ calando. Volevo riportare l’attenzione su quello che è veramente il DNA dell’azienda. Per la Nichetto Workshop Collection si è fatta un’analisi molto profonda del lavoro di Hoffmann. In questa ricerca, ero rimasto molto colpito dal suo lavoro incredibile nella progettazione di gioielli, pattern di bracciali che riportava anche in ambito architetturale. Un approccio progettuale che uno dei maestri dell’architettura e del design italiano, Carlo Scarpa, aveva poi portato in Italia. Io non ho fatto altro che mantenere questo stesso tipo di atteggiamento: ho preso come riferimento i bracciali, gioielli, pattern e li ho cambiati completamente a livello di scala, come di utilizzo, e ne è uscito un prodotto molto interessante. Alla fine è chiaro che c’è una funzione, ma questa è mascherata da un forte decorativismo.
Come vedi il design post-Covid?
Mi auguro che sia diverso, perché se è uguale a prima vuol dire che non abbiamo capito nulla. Anche questo utilizzo del termine “nuova normalità” vorrebbe dire che dobbiamo fare quattro passi indietro verso il passato. Sicuramente il presente e il futuro saranno diversi ed è un bene. Questa situazione resterà con noi per ancora un bel po’ di tempo. Secondo me il design del futuro si adatterà ai nuovi scenari. È la benzina del design, perché quando ci sono dei cambiamenti radicali vuol dire che la società scopre dei nuovi bisogni, e i creativi dovrebbero essere i primi a captare questi bisogni.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Abbiamo acquisito una villa in una zona residenziale di Stoccolma, tipo Pippi Calzelunghe. Non sarà il classico studio, ma un ambiente ibrido dove daremo il benvenuto ai clienti che potranno trascorre del tempo e lavorare insieme a noi. Questo anche perché penso che in futuro gli spostamenti saranno completamente diversi, mi auguro che non si tornerà a prendere un aereo per fare un meeting di due ore. Stiamo collaborando con Hermès per la riapertura del negozio di via Monte Napoleone a Milano, con un’azienda che produce strumenti musicali, abbiamo realizzato borse da donna in pelle di mela per un’azienda americana che fa borse vegan. Stiamo anche lavorando a un progetto con un’azienda italiana molto famosa che fa porcellana, non possiamo ancora svelare il nome. Si tratta di una collezione di home fragrances che presenteremo a settembre. Il lavoro ha compreso anche la creazione delle fragranze, abbiamo creato uno storytelling per poi arrivare al profumo che si sposa con tutto il concept. Cose diverse in settori diversi. Inoltre, uscirà un libro pubblicato da Phaidon per festeggiare i vent’anni dello studio, e a breve lanceremo anche un podcast mensile.
E per Wittman?
Abbiamo appena terminato la roadmap dei prossimi tre anni. Ci saranno collaborazioni con altre aziende, l’ampliamento del team di designer, un focus sui nuovi talenti, l’idea di portare l’azienda ad esplorare anche altri settori che sono complementari. Le ambizioni sono molto grandi, se riusciamo ad arrivare al 70% dell’aspirazione totale sarà un grande risultato!
Siete impegnatissimi, insomma.
La cosa bella di questo periodo è che ci ha permesso di poter rallentare e capire quali nuove direzioni prendere. Si sta ripensando alla figura del designer come un creativo a 360 gradi, con la capacità di fare interagire mondi diversi, cosa che io ho sempre amato fare, ma che non è mai emersa molto, è sempre stato l’oggetto finale al centro dell’attenzione. La punta dell’iceberg del mio lavoro non dà una fotografia esatta di quello che facciamo e che abbiamo fatto, quindi l’idea è di mettere questo aspetto in risalto.
– Giorgia Losio
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