Le icone del design francese in mostra al MAMC di Saint-Étienne
La città del design francese par excellence rispolvera dai fondi del proprio museo la seconda collezione di design di Francia. E celebra in una mostra il potere degli oggetti che hanno segnato il quotidiano della cultura materiale d’Oltralpe. L’intervista alla curatrice Imke Plinta.
Una collezione di design di grandissimo valore documentale ma dal potenziale ancora inesplorato, e il desiderio di mettere in mostra non tanto l’eccezionalità della produzione cosiddetta artistica, quanto gli oggetti del quotidiano che hanno segnato un’epoca e un immaginario collettivo.
È con questo spirito che il Musée d’Art Moderne et Contemporain di Saint-Étienne lancia Déjà-vu. Il design del nostro quotidiano. In mostra 300 oggetti dagli Anni Venti ai Duemila, prevalentemente francesi ma non solo, si impongono come depositari dei valori e delle estetiche che hanno segnato l’evoluzione della società francese.
Ne abbiamo parlato con la curatrice, Imke Plinta.
L’INTERVISTA A IMKE PLINTA
Sei stata chiamata da Aurélie Voltz, la direttrice del MAMC+, con la missione di valorizzare la collezione di design del museo, la seconda di Francia dopo quella del Pompidou. Come hai lavorato rispetto alla specificità di questo corpus?
Déjà-vu è l’esito di un confronto con la ricchezza e i possibili spunti di riflessione che emergono dalle riserve del MAMC+ di Saint-Étienne – l’unica città di Francia a vantare lo statuto di città creativa inscritta al patrimonio Unesco, di fatto la capitale del design francese. La dotazione del museo, ricchissima eppure ancora non completamente catalogata, vanta pezzi di arredo, oggetti afferenti alle cosiddette “arts ménagers” [gli oggetti della vita domestica, N.d.R.] fino a un’importante collezione di grafica. Ho avuto la fortuna di ricevere una sorta di carte blanche da Aurélie Voltz, che mi ha invitato a indirizzare il mio sguardo in maniera libera e personale sulle possibili piste che la collezione avrebbe potuto offrirmi. Per farlo, ho affiancato alla consultazione del catalogo digitale un’immersione fisica nella riserve – un’autentica caverna di Alì Babà da cui sono uscite sorprese completamente inaspettate: un esempio, le opere solo apparentemente minori di Michel Mortier e Ito Josué.
Come hai identificato il taglio della ricerca?
Ho lavorato molto sul contesto, mettendo sotto la lente d’ingrandimento l’identità progettuale inerente alla città – ad esempio quella di Manufrance, storica società di vendita per corrispondenza di Saint-Étienne attiva dal 1888, ma anche la specificità delle numerose cité che hanno segnato la rapida espansione del territorio a seguito della sua industrializzazione, rendendo attuale la questione della modernizzazione dell’habitat. In Francia il legame con le arti decorative è sempre sembrato imprescindibile e i dibattiti in seno all’UAM (Union des Arts Modernes) o alla SAD (Societé des Art Decoratives) molto ricchi. Eppure, il processo di affermazione del design è stato più lento che in altri Paesi. La forte pressione per la ricostruzione di alloggi di massa ha sicuramente costituito una spinta per superare l’eterno dibattito intorno al ruolo delle arti decorative.
IL MODERNISMO E IL DESIGN FRANCESE
Nella mostra scegli di mettere in valore l’esperienza del modernismo. Il design francese è spesso raccontato per esperienze singole, principalmente legate a produzioni per il mondo borghese, mentre si racconta meno la sua dimensione di massa e funzionale. Oggi il modernismo, mi permetto di dire, non va più di moda, perché se ne sottolineano sempre i limiti. Tu sembri invece riabilitarne l’importanza.
La storia del design dell’arredo francese, e soprattutto quella del dopoguerra, è meno nota all’estero, eppure offre spunti di grande interesse. Studiandola si scopre come i designer francesi degli Anni Cinquanta abbiano spesso lavorato per collettivi, come nel caso di ARP [Atelier de Recherche Plastique, fondato nel 1954 da Pierre Guariche, Michel Mortier e Joseph-André Motte, N.d.R.], e con collaborazioni molto intense tra i mestieri dell’architettura, del mobile, dell’ingegneria. Più tardi il design francese si specializza nell’oggetto, mantenendo il proprio legame con una dimensione artistica primigenia mai del tutto abbandonata. La rilevanza del modernismo, dal mio punto di vista, coincide dunque con la valorizzazione del pensiero sistemico, usato come risposta alle nuove esigenze dell’abitare. Allo stesso tempo, però, non voglio neanche glorificarlo: so benissimo che molti grands ensembles e cités costruite all’epoca, dopo vent’anni presentavano già caratteri emergenziali.
Il design che metti in mostra racconta con particolare evidenza l’ascesa delle “Trente Glorieuses”, ovvero il periodo dal 1945 al 1975.
In queste tre decadi emergono con forza i nuovi materiali, una nuova attitudine formale, ma anche esperienze eccezionali come il catalogo Prisunic [marchio di vendita di mobili informali per corrispondenza, N.d.R.]. Il potere d’acquisto cresce e le persone iniziano a poter arredare le proprie case come vogliono, facendone uno specchio della propria personalità. Nei Salon des arts ménagers, fiera annuale di mobili ed elettrodomestici, milioni di francesi acquistano i loro arredi fino agli Anni Ottanta: una festa popolare dove si glorifica il consumo.
L’ARTE E IL DESIGN
Déjà-vu è il titolo della mostra. Che ruolo ha la componente emotiva nella valorizzazione di questo “già visto”?
Da una parte ho voluto mettere in risalto questi pezzi familiari e popolari, dall’altra ho voluto anche demistificare il design, in Francia indissociabile con l’idea di arte, per raccontare come il design possa essere anche un ferro da stiro, un bicchiere Duralex o una penna Bic.
L’ultima sala della mostra si apre all’esperienza partecipativa dei laboratori, che sono ora aperti al pubblico dopo la chiusura imposta dal Covid. Credi sia questa la vera esperienza popolare e collettiva del design oggi?
L’esperienza del laboratorio all’interno di una mostra offre al pubblico la possibilità di capire il processo progettuale, il lavoro di riflessione che si nasconde dietro un oggetto e precede la creazione. La scelta che ho fatto con Nathalie Bruyère, la designer con cui ho organizzato questa sezione, è un’opportunità per mostrare cosa si può fare con il design di oggi, come si possono sperimentare la prototipazione, i nuovi materiali, per arrivare a oggetti che magari possono anche dare vita ad altri oggetti: in fondo, degli strumenti per una nuova opportunità di democratizzazione.
– Giulia Zappa
Saint-Étienne // fino al 22 agosto 2021
Déjà-vu. Le design dans notre quotidien
a cura di Imke Plinta
MAMC+ – MUSÉE D’ART MODERNE ET CONTEMPORAIN
https://mamc.saint-etienne.fr/
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