Street art e anamorfosi. Intervista alla Truly Design Crew
Il collettivo di writers torinese ha realizzato un’opera site specific sulla facciata della palazzina già “zippata” da Alex Chinneck nel 2019, all’interno dell’Opificio 31 in zona Tortona. Due membri della crew ci raccontano il loro lavoro
Il piccolo edificio di fronte all’ingresso dell’Opificio 31, il quartier generale di Tortona Rocks nell’omonimo distretto del Fuorisalone, aveva già fatto sensazione tre anni fa, quando l’artista britannico Alex Chinneck, re delle illusioni in scala monumentale, ne aveva “aperto” la facciata munendola di una gigantesca zip nell’ambito di un’operazione promossa da IQOS, il brand smoke-free di Philip Morris. Quest’anno, a intervenire sulla palazzina creando un’installazione temporanea per lo stesso committente sono stati i writers del collettivo torinese Truly Design Crew. Attivi dalla metà degli anni Novanta, si occupano di arte urbana, grafica e illustrazione a tutto tondo, lavorando su progetti commerciali e artistici. Si distinguono in particolare per il loro uso del colore e dell’anamorfosi, cioè di una distorsione prospettica che consente la visione dell’opera soltanto da un determinato punto di vista. Rems 182 (al secolo Emanuele Ronco) e Ninja 1 (Rocco Emiliano Fava) ci hanno raccontato la genesi di WE, il pezzo appena realizzato qui a Milano con una innovativa vernice antismog progettata da Airlite, e il loro percorso, dagli appostamenti alla stazione per veder sfilare i graffiti sui treni allo studio della prospettiva rinascimentale.
Come funziona il gioco anamorfico in WE? Come avete lavorato?
C’è un punto di vista canonico, quello frontale, che permette di avere una visione classica del disegno contenuta all’interno di un cerchio perfetto. In realtà, però, i punti di vista sono infiniti e di solito la maggior parte delle persone preferisce trovare il proprio punto di osservazione preferito, fuori dalla prospettiva corretta. La street art di solito è vincolata alle due dimensioni e a un’architettura preesistente sulla quale non si ha un controllo totale. In questo caso, invece, pur partendo da una facciata bidimensionale abbiamo costruito un sistema di pannelli secondo le nostre esigenze di prospettiva con l’aiuto di Merlo Factory, un fornitore che ci aiuta spesso a realizzare le nostre idee più pazze.
L’anamorfismo ha una lunga storia, che va dai grandi maestri del passato come Leonardo Da Vinci ai contemporanei, per esempio Felice Varini. Quali sono i vostri modelli?
Noi siamo iperappassionati di arte anamorfica. Naturalmente studiamo il lavoro dei maestri contemporanei, Georges Rousse e Felice Varini su tutti, però ci è piaciuto approfondire anche la genesi di questa forma d’arte. Nel Quattrocento in Europa si è arrivati al massimo dell’espressione pittorica figurativa, a quel punto lo step successivo è stato creare dei piccoli giochi di illusione ottica. Così siamo andati a vedere tutti gli esempi possibili, da Leonardo a Gli Ambasciatori, il dipinto di Hans Holbein il Giovane conservato alla National Gallery, i cui protagonisti si ergono su quella che sembra una macchia ma in realtà è un teschio. Queste opere hanno un valore tecnico eccezionale, anche tenendo conto della limitazione di mezzi dell’epoca.
Voi potete contare sulla tecnologia.
Siamo aiutati dagli strumenti digitali, sì, però ci siamo cimentati spesso anche nel riprodurre effetti ottici con le tecniche antiche, analogiche, per esempio le griglie prospettiche tracciate a mano. Lo abbiamo fatto per metterci alla prova ma anche per necessità, per esempio in situazioni particolari in cui non potevamo contare su tutte le attrezzature che abbiamo in studio. La differenza principale sta ovviamente nei tempi, per fare una traccia a mano ci possono volere diversi giorni.
Negli ultimi anni avete realizzato anche parecchi campi da gioco, per esempio da basket. Che cosa cambia rispetto alle pareti?
C’è una percezione ancora diversa, se ti trovi sul campo – che nel migliore dei casi misura 28 metri per 15 – non hai una visione d’insieme. Con un drone, però, puoi andare a vederlo dall’alto, con una visione zenitale. Abbiamo fatto anche alcuni campi anamorfici, con delle scritte che potevi leggere soltanto da un certo punto del campo. Spesso c’è un tema di riqualificazione di aree urbane degradate. Abbiamo fatto un lavoro di questo tipo anche a Napoli, per il lancio del disco di Clementino che ha voluto regalare alla sua città la riqualificazione di Piazza Medaglie d’Oro.
Da dove venite, artisticamente parlando? Come avete cominciato?
Rems 182: Veniamo dal mondo dei graffiti e della street art, in quest’ordine, e nel corso degli anni ci siamo lasciati contaminare da altre forme espressive, dall’illustrazione e dal graphic design fino all’architettura. Abbiamo cominciato da adolescenti, tra il 1996 e il 1997, ascoltando musica hip hop che allora non era affatto mainstream. Era una vera e propria rivoluzione culturale che non aveva un apparato di business.
Ninja 1: Noi veniamo dalla periferia sud di Torino, in quegli anni c’erano già dei graffiti ma non erano visibili come oggi. Un giorno ho comprato Aelle (storica rivista dedicata al rap e all’hip hop, ndr), ho letto uno speciale sui TDK di Milano ed è stata una rivelazione. A volte andavamo alla stazione a vedere passare i treni perché era l’unico modo per vedere dei graffiti e per farsi conoscere non c’era altro modo che essere presenti in città.
Quando è diventato un lavoro vero e proprio?
Quando abbiamo cominciato avevamo una visione un po’ adolescenziale, pensavamo che il mondo si sarebbe piano piano adeguato al nostro gusto. Abbiamo continuato a crescere e ad aggiornarci finché una decina di anni dopo, intorno al 2007 e sulla scia delle Olimpiadi invernali, abbiamo capito che potevamo farne un lavoro. Il coraggio ce l’ha dato un po’ anche MTV che in quegli anni proponeva tanta motion graphic ispirata ai graffiti e alla street art e ci ha fatto capire che poteva esserci un pubblico.
-Giulia Marani
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