Disegnare con gli scarti. Intervista al designer Humberto Campana
Con il “trattamento Campana”, qualunque cosa può diventare il materiale di partenza di un pezzo di design: pezzi di corda, cascami di tessuto, listelli di legno, ma anche bambole o animali di peluche. Per collaborare con loro Paola Lenti ha aperto ai designer brasiliani la sua materioteca...
Capaci di fondere spirito pop e sofisticatezza in una maniera autenticamente brasiliana che forse sarebbe piaciuta a Lina Bo Bardi, Fernando e Humberto Campana – per quasi tutti nel mondo del design “i fratelli Campana” – praticano la sostenibilità da molto prima che diventasse mainstream. Lo fanno, in particolare, ricorrendo a materiali di recupero e creando assemblaggi variopinti ed esteticamente coraggiosi, poiché non ricordano nulla di già visto e sono difficili da collocare in categorie prestabilite. Non stupisce, quindi, che Paola Lenti abbia scelto di affidare alle loro cure gli “sfridi” di tessuto, cioè gli scarti di lavorazione raccolti in quasi tre decenni di attività dell’azienda, nota soprattutto per i suoi tappeti e per gli imbottiti, con l’obiettivo di dare vita a nuovi prodotti. Il risultato è Metamorfosi, una collezione di pezzi unici, per lo più di grandi dimensioni, che Humberto Campana (Rio Claro, 1953) ha presentato al pubblico durante l’ultima edizione della design week milanese. Con lui abbiamo parlato di riciclo e di riuso, delle attività dell’Instituto Campana e del suo progetto di creare un parco botanico per salvare la biodiversità sottraendola all’avanzata delle coltivazioni intensive.
INTERVISTA A HUMBERTO CAMPANA
Partiamo dal principio. Come è nata la collaborazione con Paola Lenti?
Ho sempre ammirato il lavoro di Paola ma non la conoscevo di persona, il suo invito è stato un grande regalo. È successo all’inizio della pandemia, in un periodo in cui mi trovavo in Brasile ed ero un po’ depresso. Il suo assistente, che è anche un amico, mi ha chiamato e mi chiesto se mi sarebbe piaciuto fare qualcosa con gli scarti dell’azienda. Paola mi ha spedito un pacco con tanti materiali bellissimi, corde e tessuti di diversi colori, un piccolo assaggio del contenuto delle scatole – decine di cartoni! – che aveva riempito negli anni e che avrei ricevuto in seguito. Aprirlo è stato come trovare un tesoro.
E poi?
Ho cominciato a intrecciare, a creare forme, e piano piano è nato questo mondo fantastico, con elementi animali e vegetali un po’ fuori scala. Con Paola e il suo team ci siamo incontrati soltanto a marzo di quest’anno, quando sono tornato in Italia per la prima volta dopo la pandemia.
Il riciclo e l’upcycling dei materiali sono diventati pratiche frequenti nel design, tu e Fernando però avete cominciato in tempi non sospetti. Siete stati in un certo senso dei pionieri.
Riciclare è una cosa che fa parte della mia natura, lo faccio da sempre. Sono nato in campagna, nel cuore agricolo dello stato di San Paolo, negli Anni Cinquanta. Mio padre era ingegnere agronomo, non avevamo la tv, il contesto in cui vivevamo era quasi monastico. Tra i miei giochi preferiti molti avevano a che fare con il costruire – case sugli alberi, per esempio – e con l’inventare oggetti nuovi a partire da quello che trovavo in giro: cactus, piante, pezzi di legno… In paese avevamo anche un cinema, era gestito da un signore italiano e proiettava i più bei film di quegli anni, dal Neorealismo a Fellini e Pasolini. Non avevo ancora l’età giusta per assistere alle proiezioni ma non importava, era un amico di famiglia e mi lasciava entrare lo stesso. Quando tornavo a casa mi divertivo a ricreare le scenografie usando quelli che oggi chiameremmo materiali di recupero. Molti anni dopo, ho avuto la meravigliosa opportunità di collaborare con aziende grandi, con un’audience globale, e far arrivare questo messaggio a un pubblico più ampio.
IL DESIGN SECONDO HUMBERTO CAMPANA
Chi ha cominciato per primo a fare design, tra voi due fratelli?
Sono stato io, anche se facevo un mestiere completamente diverso, quello dell’avvocato. Fernando, che è architetto di formazione, a un certo punto ha cominciato a dare funzionalità alle cose che creavo, a portare un punto di vista più contemporaneo. Da quasi quarant’anni ci “nutriamo” a vicenda.
Il punto di partenza del tuo lavoro è sempre quello di allora, cioè il fare con le mani?
Sì. Come diceva Bruno Munari, si impara a pensare con le mani. Certo, quando ho cominciato non conoscevo Munari e non avevo la più pallida idea di che cosa facesse un designer.
Quali sono state le tue fonti di ispirazione?
Mi ha ispirato moltissimo il lavoro di Lina Bo Bardi, che ha portato sul Brasile uno sguardo “lontano”, da straniera, e ha insegnato a noi brasiliani che avevamo una cultura vernacolare incredibile e che non era il caso di intestardirsi a voler copiare la Germania o la Scandinavia. Ho visitato le mostre che ha allestito al MASP (il Museo di Arte Moderna di San Paolo, N.d.R.) sulla cultura popolare e sulla scenografia e ho deciso che mi sarebbe piaciuto fare come lei e trovare una via autenticamente brasiliana al design. Non ho fatto in tempo a conoscerla però ho potuto incontrare suo marito, Pietro Maria Bardi, che è venuto a mancare una ventina di anni fa.
Dietro Metamorfosi c’è anche un progetto sociale. Come funziona?
Abbiamo collaborato con una sartoria sociale di Como che forma persone a rischio di emarginazione, per esempio migranti richiedenti asilo, e le aiuta a trovare un lavoro. Per ora ci sono due giovani donne, una di origine ghanese e una senegalese, che stanno imparando a produrre i pezzi di Metamorfosi, ma l’idea è di introdurre gradualmente altre persone man mano che la collezione crescerà.
I PROGETTI DEI FRATELLI CAMPANA
Associare design e trasformazione sociale non è una novità per voi. In Brasile portate avanti da tempo iniziative simili, per esempio con i ragazzi delle favelas.
Tredici anni fa abbiamo fondato l’Instituto Campana, che ha una vita autonoma rispetto al nostro studio di progettazione e ha due obiettivi: recuperare una serie di mestieri artigianali in via di estinzione e aiutare persone in difficoltà a ritrovare la propria dignità. Inoltre sto creando un parco botanico a Brotas, dove sono cresciuto, per insegnare alle generazioni future il rispetto dell’ambiente. Se ne sentiva la necessità perché è una zona di agrobusiness, in cui si sta disboscando moltissimo per fare ancora più spazio alle monocolture di soia o canna da zucchero. L’idea è di fare una sorta di opposizione tranquilla, creando un’area verde “resistente”. Mi piacerebbe che in futuro ospitasse anche una scuola di artigianato, sarebbe il luogo ideale perché abbiamo una grande tradizione di selleria e di intrecci in bambù e cuoio.
A proposito di intrecci, anche quello è un vostro cavallo di battaglia.
Sì, da sempre. Mi è sempre piaciuto studiare nuove forme e nuovi tipi di intrecci: per me è un’attività terapeutica, è un po’ come dipingere, mi aiuta a sciogliere la tensione… Per la poltrona Vermelha, per esempio, uno dei nostri primi pezzi (prototipata nei primi Anni Novanta per una galleria brasiliana e poi prodotta da Edra nel 1998), Fernando ha creato una struttura metallica sulla quale ho lavorato come se fosse un dipinto, riempiendo gli spazi vuoti con colori materici.
I vostri pezzi contengono spesso una critica, o comunque una reazione, all’attualità. Come avete vissuto questi due anni di pandemia e dove vi hanno portati, metaforicamente parlando?
È una domanda interessante. Una delle cose che ho fatto durante la grande pausa di riflessione imposta dalla pandemia è stata fare dei collage, ero a casa e avevo con me tantissime riviste di architettura e design, mi è venuto spontaneo ritagliarle e cominciare ad assemblarle. Poi, quando è stato possibile uscire, ho cominciato a piantare alberi sul mio pezzo di terra. In tutto, abbiamo piantato ventimila alberi autoctoni.
Quando aprirete al pubblico?
Non so ancora esattamente quali saranno i tempi. Per ora sto cercando di creare la poesia, in seguito vorrei regalarla alla collettività e farla vivere, ma per fare questo avrò senz’altro bisogno di aiuto.
‒ Giulia Marani
https://estudiocampana.com.br/
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