I 30 anni degli olandesi di Droog Design alla Triennale di Milano
La Triennale di Milano lancia durante i giorni del Salone una mostra tributo a Droog Design. Un’occasione, a trent’anni di distanza dalla consacrazione, per guardare al lascito del movimento olandese attraverso i commenti di quanti ne sono stati influenzati
“Forte e chiaro come un buon Martini”. A Paola Antonelli sono bastate una manciata di parole per inquadrare lo spirito di Droog Design, il collettivo olandese fondato nel 1993 da Renny Ramakers e Gijs Bakker sotto l’egida di un progetto concettuale, ironico, dritto al punto – un progetto “secco”, che è poi il significato della parola “droog”. Di epiteti per inquadrare il fenomeno Droog, del resto, ne saranno coniati tanti, come “Spirito degli anni ‘90”, “Less + More”, “Design in context”: tutte frasi folgoranti che restituiscono il senso della virata, per lo più inaspettata, impressa da questo ennesimo gruppo di scapigliati alla storia del design.
A trent’anni di distanza dalla nascita di Droog, una mostra della Triennale di Milano – Droog30. Design or Not Design, in collaborazione con il Nieuwe Instituut di Rotterdam – prova a restituire la temperatura di quella stagione, rievocandone l’attitudine ed esplorando l’eredità che il movimento ha lasciato tanto tra i protagonisti che tra coloro che gli sono succeduti.
LA MOSTRA SU DROOG DESIGN A MILANO
“La mostra non vuole essere un’antologica, quanto un tributo in occasione dei 30 anni dal lancio internazionale di Droog Design a Milano. Fu infatti l’esposizione allo showroom di Pastoe al Fuori Salone a lanciare il movimento noto fino a quel momento solo in un ristretto ambito locale, aprendogli le porte del riconoscimento di tutta la comunità del design”, ci racconta Maria Cristina Didero, curatrice dell’esposizione insieme a Richard Hutten, che di Droog fu uno dei più celebri membri. “Per capire cosa è Droog oggi, e per conoscere il pensiero dei diretti interessati, abbiamo iniziato a fare un cloud sourcing di opinioni attraverso i social network. I commenti raccolti sono stati trasformati in un wallpaper che avvolge tutta la sala, configurando un ambiente immersivo – una parola spesso abusata, ma in questo caso, credo, calzante – costruito attraverso gli spunti raccolti”.
Del resto, è proprio l’impalpabilità del confine tra marchio, collettivo e manifesto a fare di Droog un fenomeno che si apre al commento e alla pluralità dei riscontri. In un mondo ancora senza Internet e dove la logica della serialità industriale rimane schiacciante, Droog sarà l’antesignana della limited edition, con numerosi pezzi autoprodotti che subordineranno la standardizzazione agli azzardi della produzione – come nel caso della Rag Chair di Tejo Remy, la celebre poltrona fatta di stracci. L’autoproduzione e la rivalorizzazione dell’artigianato, spesso reinventato con pratiche low-tech, non saranno però esclusive, e andranno di pari passo con progetti seriali e democratici. E questo perché il collettivo – una qualità che sembra delineare una delle sue caratteristiche più interessanti – dimostra fin dai suoi esordi la capacità di racchiudere senza conflittualità tutta una serie di apparenti contraddizioni.
LE CREAZIONI DI DROOG DESIGN
Con Droog, decoro e minimalismo conviveranno senza interferenze come espressione della visione concettuale del proprio autore. Il riuso farà capolino tra le pratiche del possibile, ma senza incarnare un desiderio di austerità, bensì come una necessità di produrre oggetti più consapevoli, oltre che come una celebrazione del quotidiano e dei suoi aspetti se si vuole più intimisti, banali o nascosti, come racconta la predilezione per i materiali poveri. Anche l’ironia sarà manifesta: pensiamo alla Do It Chair di Marijn Van der Poll, la poltrona in laminato d’acciaio da scolpire a colpi di mazza per scaricare la propria rabbia. Allo stesso tempo, Droog non trasformerà i propri oggetti in totem, e respingerà l’estetizzazione mitologica e misterica tipica, ad esempio, della stagione radicale italiana, instaurando il primato del processo sulla forma. Infine, seppure operando in una nicchia, Droog non contrapporrà il design d’avanguardia alla possibilità di un successo commerciale, e anzi traccerà una terza via per una loro possibile convivenza.
Oltre alla carta da parati, per sondare questo spettro di opinioni la mostra in Triennale chiama in causa anche lo strumento filmico. Interviste ai protagonisti dell’epoca, le Dry Interviews (a cura di Didero con Francesca Molteni, che ne cura anche la regia) testimoniano il punto di vista dei protagonisti, in primis gli stessi Ramakers e Bakker, esplorandone una sorta di lascito. Il quale sarà reso tangibile anche sotto la forma di nuove idee. Una speciale bacheca dove lasciare le proprie proposte per Droog, chiamata Bring Your Own Droog, viene infatti messa a disposizione del pubblico. Un modo originale per esplorare l’eco di Droog attraverso l’individuazione di nuovi possibili prodotti. Oltre le parole, e con uno spiraglio aperto verso il futuro.
Giulia Zappa
Articolo pubblicato su Speciale Design 2023
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