La settimana del design milanese si è appena chiusa e, come ogni anno, è arrivato il momento dei bilanci. Consapevoli del fatto che con quasi mille eventi disseminati per la città sia impossibile coprire tutto e della parzialità di qualunque giudizio, abbiamo stilato una lista delle proposte che ci hanno convinto e degli aspetti che, invece, meriterebbero di essere rivisti.
Giulia Marani e Giulia Mura
TOP – IL NUOVO LAYOUT DI EUROLUCE
“Euroluce sarà il nuovo standard per gli allestimenti fieristici?” ci chiedevamo qualche settimana fa, al momento di mandare in stampa il nostro speciale cartaceo. Adesso, a bocce ferme, possiamo dire che le aspettative non sono state disattese. Il nuovo layout della “città delle luci”, più mosso e arioso, ricalcato sulla struttura dei centri storici italiani, ha reso effettivamente l’esperienza di visita più piacevole, soprattutto se sull’altro piatto della bilancia mettiamo la fruizione del resto della fiera con i suoi infiniti corridoi e le faticose camminate lungo i muri perimetrali di stand impenetrabili come fortini. Le mostre proposte all’interno dei padiglioni 13 e 15 sono state inoltre tra le più intelligenti viste durante la design week. Menzione speciale per Fiat Bulb. La sindrome di Edison, il percorso sulla lampadina a incandescenza tra arte e design curato da Martina Sanzarello.
TOP – LA MOSTRA PER I 50 ANNI DE IMAESTRI DI CASSINA
L’allestimento, tutto giocato sui toni del rosso Cassina e sviluppato in gran parte nel piano interrato di palazzo Broggi, che una volta ospitava il caveau di una banca, è di grande impatto scenico. Questa, però, non è la ragione principale del fascino che Echoes, 50 years of iMaestri, la mostra organizzata dallo storico brand per celebrare i cinquant’anni della sua collezione incentrata sulla riedizione di arredi progettati dai grandi architetti del passato per le loro committenze private, esercita sui visitatori. L’elemento di maggiore interesse risiede, secondo noi, nell’esposizione dell’archivio, compresi i prototipi mai entrati in produzione, e nella decostruzione (da intendersi in senso letterale, poiché alcuni mobili e oggetti, per esempio il Veliero e la Radio in Cristallo di Franco Albini, sono stati smontati e sono visibili nelle loro singole parti) dei meccanismi che hanno permesso a progetti di settanta o addirittura cento anni fa di essere traghettati nel presente.
TOP – “SENZA INVITO” A SAN VITTORE
In un contesto generale di caccia alla location più esclusiva o inaccessibile, l’associazione culturale Repubblica del Design è riuscita ad aprire un luogo “chiuso” per definizione, la Casa Circondariale di San Vittore, invitando la cittadinanza a scoprire le opere realizzate dai detenuti nell’ambito di un laboratorio di economia circolare. La fondatrice Ilaria Scauri e i docenti dello IUAV di Venezia che sono arrivati a darle manforte hanno cercato di incanalare una creatività diffusa già presente tra le mura del carcere, poiché è cosa comune per i detenuti riparare le cose quando si rompono o hackerarle con mezzi di fortuna. Le chaise longue, i candelabri, i vasi e gli altri oggetti in mostra – c’è anche una piramide con un ingegnoso meccanismo di apertura – sono realmente sostenibili essendo stati creati a partire da materiali di risulta (bottiglie, cartoni, cassette della frutta) e derivano da un vero processo di coprogettazione. Inoltre, confermano l’intuizione di Victor Papanek che “ogni uomo è un designer”, rendendosi più utili dell’ennesima installazione.
TOP – TRE INTERNI SENSUALI
A stupire in questa edizione sono stati soprattutto alcuni raffinatissimi progetti di interior design, allestiti in storiche dimore milanesi. Casa SEM è un progetto speciale pensato da Motta Architecture con l’obiettivo di dare un’ambientazione domestica a una selezione di arredi reinterpretati con toni naturali e alla nuova collezione Néolithique. Attraverso il lavoro di Giuseppina Motta, Hannes Peer, Valentina Cameranesi Sgroi, Marcante-Testa, Vormen, Giacomo Moor, Elisa Ossino, Zaven e Maya Leroy, CASA SEM sperimenta, con un’estetica raw, un dialogo creativo con tessuti Dedar, lampade di Pietro Russo e una selezione di opere da A+B Gallery e Edoardo Monti. In via Conca del Naviglio 10, in un edificio déco, Casa Ornella è il progetto emozionale di Maria Vittoria Paggini, uno spazio completamente ridecorato dalla designer come una dimora galleria affittabile in cui tutti gli oggetti – o di sua creazione o vintage – sono messi in vendita. Un inno al colore, alle superfici, ai pattern e all’eclettismo (oltre che a Ornella Vanoni, sua musa) anche grazie alle opere d’arte presenti, come le tele di Sergio Fiorentino, le installazioni sferiche blu cobalto di Nicolas Denino o le sculture neo futuriste di Filippo Salerni. Infine, L’Appartamento allestito da Artemest in un’elegante dimora anni ’30 in Via Cesare Correnti 14, nel distretto5Vie, curata da sei prestigiosi studi di interior design internazionali al fine di celebrare l’alto artigianato e il design italiani. Chiamati a riportare in vita gli ambienti di questo appartamento decadente e bellissimo, i designer hanno trasformato lo spazio in una sequenza fatta di più punti di vista, ognuno distinto per la sua estetica evocativa, palcoscenico per differenti visioni creative. L’ingresso è curato da T.ZED Architects, il living da Kingston Lafferty Design, la terrazza da MONIOMI Design, la sala da pranzo da Nina Magon, la camera da letto da Styled Habitat, il corridoio e lo studio da Anne-Sophie Pailleret.
TOP – “THE DUTCH” CORNER ALL’ISOLA
La quarta edizione di Isola Design Gallery, in via Pastrengo 14, ha celebrato oggetti di design da collezione in grado di raccontare una storia, pezzi personalizzabili che offrono un’esperienza e prodotti contemporanei ispirati alla vita quotidiana. Sempre in chiave di sostenibilità creativa. Per l’occasione la galleria ha presentato The Dutch Corner, una selezione di progetti realizzati da talenti olandesi e studi di design affermati – quasi tutti provenienti dalla Eindhoven Design Academy – curata da Wisse Trooster e sostenuta dal consolato generale dei Paesi Bassi a Milano. Una collettiva eterogenea, con 60 partecipanti, che mette in luce il valore della produzione artigianale e della ricerca applicata.
TOP – CAMPO BASE
Proprio davanti alla Fondazione Prada, negli spazi industriali della Fabrica Orobia, per la prima volta ha preso vita Campo Base. Il progetto, curato da Federica Sala, è un manifesto sull’interior design contemporaneo, autoprodotto, autogestito e da firmato da sei studi di architettura italiani, Massimo Adario (Roma), Giuliano Andrea dell’Uva (Napoli), Eligostudio (Milano), Marcante-Testa (Torino), Hannes Peer (Milano) e Studiopepe (Milano). Un progetto insieme singolare e corale, una riflessione sensoriale sullo spazio e sul concetto di intimità domestica. Campo Base è un villaggio, un accampamento, una micro comunità architettonica in cui i sei progetti vengono scoperti avventurandosi lungo il percorso comune, una sorta di placenta di tessuto (animato dall’installazione sonora ASMR di Norma Jeane). Massimo Adario, ha interpretato il concetto di intimità in una stanza chiamata The Collector, un ambiente astratto ma accogliente con una selezione di oggetti che rispecchiano la personalità del collezionista. Marcante-Testa ha immaginato uno spazio eterotopico in cui gli arredi sono svuotati per trovare una nuova ritualità. Hannes Peer, con Atelier des Nymphéas riecheggia l’atmosfera degli atelier degli artisti del passato, come Monet a Giverny o Costantin Brancusi a Parigi. Omaggio a Renzo Mongiardino, di Eligostudio, si concentra sull’importanza della convivialità domestica come supremo momento di intimità in cui l’architettura effimera gioca sull’illusione. Mentre il progetto di Studiopepe, Omphalos, ‘ombelico’ in greco antico, abbraccia come una “pelle psichica”, difendendoci dall’esterno, grazie a una serie di elementi archetipici. Giuliano Andrea dell’Uva, infine, si chiede se sia possibile abitare il vuoto, uno spazio senza funzione: la sua creazione, Ammonite, è uno spazio unico in cui architettura e arredi diventano un lento viaggio di iniziazione dell’intimità.
FLOP – TROPPI EVENTI
931 iniziative spalmate su poco più di una settimana sono troppe per chiunque, anche per chi ha piedi buoni e suole resistenti. Dopo un’edizione light, quella settembrina del 2021, e una semilight, quella di giugno dello scorso anno, siamo tornati ai volumi insensati del pre-Covid, mentre le uniche eredità evidenti della pandemia sembrano essere una presenza più importante dell’outdoor e la tendenza verso ambienti di lavoro ibridi e flessibili. Non sarebbe meglio fare come un po’ tutti auspicavano in questi anni, cioè di meno e meglio? Una strada percorribile potrebbe essere la costruzione di proposte tematiche articolate e coerenti nei vari distretti, come fanno da anni, per esempio, 5VIE e Isola e come ha fatto quest’anno Dropcity con merito. Un altro grande ritorno è stato quello delle installazioni sponsorizzate da grandi brand e multinazionali estranei al mondo del design, che ricercano una facile visibilità e talvolta propongono messaggi in aperto contrasto con la filosofia (o l’operato) del committente.
FLOP – TROPPO “TEMPORARY”
Le opere site-specific e in generale gli interventi artistici temporanei che spesso accompagnano la design week affascinano perché rendono chi li osserva testimone di un momento di creazione unico e irripetibile. In una città come Milano, però, affamata di progetti immobiliari e di parcelle su cui costruire, queste operazioni rappresentano spesso il canto del cigno per edifici, anche di pregio, prossimi alla demolizione. L’intervento di Agostino Iacurci sul palazzo disegnato da Arrigo Arrighetti in largo Treves, per esempio, è riuscito sul piano estetico e ha un sostrato culturale perché si riferisce al problema del riscaldamento globale a partire da un saggio di Telmo Pievani e Mauro Varotto. Come non pensare, però, al fatto che la torre di dieci piani, poco amata dai milanesi ma comunque parte del patrimonio architettonico della città, sarà presto rasa al suolo per fare spazio a un complesso residenziale per inquilini altospendenti?
FLOP – TROPPO PROTAGONISMO
Va bene che esiste il detto “squadra che vince non si cambia”. Ma in questa edizione, con ancora maggiore evidenza, ci è parso di aver visto circolare in maniera eccessivamente ricorrente alcuni nomi (che non faremo). Senza nulla togliere alla comprovata bravura di questi designer, curatori e guest, nazionali e internazionali, e senza giudicare i brand che si affidano a loro per ottenere in cambio un sicuro successo, mediatico e di pubblico, questo è un dato che va sottolineato (anche perché non tutto era di livello). Molti erano coinvolti in 5, 6, 7 progetti o location: senza di loro sembra quasi che non sia più possibile ottenere exhibition degne di nota, o eventi che ottengano un rimbalzo social di vasta portata, come se non esistessero proposte alternative valide al di fuori di un certo sistema. E il design come agente di cambiamento dov’è finito? E lo scouting?
FLOP – TROPPE RIEDIZIONI
Il tema scelto per il Fuorisalone 2023, Laboratorio Futuro, ci aveva creato delle aspettative. Intendeva infatti richiamare la dimensione sperimentale del progetto ed essere un’esortazione collettiva rispetto alle sfide reali che ci aspettano: economia circolare, riuso, sostenibilità dei processi e dei materiali, rigenerazione urbana e dell’intelligenza artificiale. Più che alla sperimentazione, però, abbiamo assistito a tante riedizioni, allo sguardo che invece di prefigurare il futuro si rifugia nel passato, in progetti già visti e vestiti con abiti nuovi, nuove finiture, magari un nuovo packaging o qualche miglioramento in termini di performance tecnologica e di processo magari. E allora ci chiediamo: quanto sono davvero messi in pratica i temi che si proclamano a parole in queste occasioni? E quanto il mondo del design e della filiera produttiva dovrebbe riflettere in merito a quantità versus qualità?
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