Gioia Laura Iannilli è ricercatrice (senior) in Estetica presso l’Università di Bologna. La sua ricerca verte sui temi dell’estetica pragmatista, del quotidiano, del design, della moda e delle nuove tecnologie. Su questi temi ha pubblicato diversi contributi. È membro della redazione di Studi di estetica e dell’International Lexicon of Aesthetics (Mimesis). È stata membro del consiglio direttivo della Società Italiana d’Estetica e segretaria della Experience Research Society. Ha curato i volumi Aesthetic and Linguistic Practices (con Stefano Oliva; Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio 2022), Co-Operative Aesthetics: A Quasi Manifesto for the 21st Century (Aesthetica, 2022); Aesthetic Environments: Contemporary Italian Perspectives (Aesthetica, 2021). È l’autrice dei libri The Aesthetics of Experience Design: A Philosophical Essay (Mimesis International, 2020), L’estetico e il quotidiano. Design, everyday aesthetics, esperienza (Mimesis, 2019). Il dialogo approfondisce alcuni dei principali argomenti che Iannilli affronta in quest’ultimo libro.
INTERVISTA A GIOIA LAURA IANNILLI
Tanto agli studi sulle arti quanto a quelli di estetica il design presenta spesso numerose sfide. Perché l’hai scelto per svolgere le tue ricerche sul rapporto tra l’estetica e il quotidiano?
In effetti mi sono occupata del design sia nel libro del 2019 sia, in modo ancora più esplicito, in quello del 2020. In particolare, l’ho affrontato nella sua cifra esperienziale e non oggettuale. Sotto questo profilo è un fenomeno che possiede una triplice forza: esplicativa, rispetto alle dinamiche esperienziali (estetico-quotidiane) attuali; critica, rispetto a irreggimentazioni dell’estetica in canali che privilegiano la dimensione artistica, oggettuale e disinteressata dell’esperienza relativa; produttiva, sia per una riconcettualizzazione di alcune tipiche categorie estetiche (dalla creatività alla percezione, ad esempio, ma anche e soprattutto in ordine al rapporto tra bello e utile, o tra forma e funzione) sia per la messa a fuoco, ex negativo, di una questione per niente secondaria oggi, ovvero quella relativa alle abilità, o sensibilità operative che siamo chiamati/e a sviluppare e a esercitare – attraverso le nostre concrete scelte di gusto – in ambienti quotidiani progettati che spesso da esse ci esonerano.
In essi, le esperienze vengono agevolate, “condensate” e intensificate, risultando potenzialmente tanto emancipatorie ed empowering, quanto de-differenzianti e inconsapevoli, nonché tendenzialmente effettuate in modalità non sempre sostenibili.
Il campo delle ricerche filosofiche oggi noto come “Everyday Aesthetics” è in continua trasformazione. Nel tuo libro sottolinei la necessità di prestare attenzione in particolare a due fattori: da una parte, al ruolo centrale delle componenti relazionali e intersoggettive dell’estetico quotidiano, dall’altra alla continuità tra i diversi livelli dell’esperienza quotidiana. Come si caratterizzano e perché sono così importanti per gli sviluppi più recenti delle ricerche?
Nel ricostruire la sua genesi, nel libro parlo della necessità di congedarsi dall’Everyday Aesthetics. In questo suo percorso iniziato all’incirca negli anni Novanta del Novecento si è spesso proceduto definendo la quotidianità per reazione, ovvero per sottrazione, rispetto a ciò che fino ad allora aveva principalmente voluto dire “estetico”. Questo ha spesso implicato un atteggiamento “isolazionista” e dunque filosoficamente ingenuo nei confronti non solo della quotidianità, che è per converso una dimensione complessa, ma anche della stessa esteticità, che include anche l’artisticità o la non ordinarietà. Di qui l’enfasi sulla dimensione relazionale, intersoggettiva e continuistica dell’esperienza nella sua articolazione estetica quotidiana. A tal fine, basta intendere la quotidianità come una dimensione “contingentemente stabile”, con un proprio “qui e ora” che è però informato da un passato e orientato a e da un futuro. L’estetico, invece, occorre intenderlo come un nesso di percezione (ci relazioniamo all’ambiente prioritariamente attraverso i nostri sensi), sensazione (questa relazione basata sulla sensibilità può essere positiva o negativa) ed espressione (esprimiamo questa relazione attraverso mosse esplicite/proposizionali e implicite/pratiche: tematizziamo e descriviamo ciò che esperiamo tanto quanto agiamo, usiamo e consumiamo le cose mostrando a noi stessi e agli altri ciò che pensiamo e sentiamo). Se si assume una tale prospettiva, risulta quasi ridondante parlare di un’estetica del quotidiano come sub-disciplina; più utile è invece parlare di un’estetica generale che, metabolizzata e congedata l’EA, si occupa anche di quotidianità avendone acquisito i motivi al proprio interno senza farli diventare connotati essenziali, ma relazionalmente elementi strutturali dell’estetico, con altri.
Ai fini di un soddisfacente studio dell’esperienza del quotidiano, insieme al ruolo chiave di una estetica relazionale sottolinei anche i vantaggi dell’adozione delle prospettive pragmatista e fenomenologico-critica. Quali sono le ragioni alla base di questa impostazione metodologica?
Nel pragmatismo trovo una forma del sapere filosofico che fa interagire proficuamente il livello teoretico-astratto della riflessione e quello operativo-concreto dell’esperienza. Il focus sulla dimensione esperienziale che lo connota, non a caso, si riflette nel suo principio base, ovvero che ogni concettualizzazione debba trovare la propria radice e il proprio banco di prova nell’esperienza concreta. In secondo luogo, all’estetica pragmatista (deweyana) devo l’esplicitazione di una insoddisfazione, che condivido, per quella che è la tradizionale riduzione dell’estetica a una filosofia dell’arte e, al limite, della natura, rivolta principalmente a oggetti e momenti extra-ordinari, non funzionali e fruiti in modo contemplativo. Il pragmatismo ha invece messo in rilievo l’esteticità anche e parimenti di esperienze non artistiche, non naturali, ordinarie, diffuse, pratiche e interessate, ovvero relative alla dimensione del diretto e inevitabile coinvolgimento dell’organismo con gli ambienti quotidiani in cui è immerso. E anche una metodologia fenomenologico-critica condivide con il pragmatismo l’attenzione verso le pratiche, ponendo egualmente al centro delle proprie indagini non solo l’esperienza conoscitiva ma anche lebensweltlich, e quindi materiale e non-proposizionale, così come una concezione dell’esperienza come relazione tra sé e mondo e non, cartesianamente, come contrapposizione tra un soggetto e un oggetto. A queste due tradizioni di pensiero devo anche un altro principio operativo, tanto filosofico quanto “esperienziale”, che consiste in un atteggiamento anti-ipostatizzante e anti-prescrittivo, ma allo stesso tempo rigoroso – critico, appunto – rispetto ai fenomeni con cui si entra in relazione.
LA EVERYDAY AESTHETICS SECONDO IANNILLI
Illustrando le diverse posizioni teoriche che animano il dibattitto contemporaneo della Everyday Aesthetics, proponi una efficace differenziazione tra produzione teorica e meta-teorica. Quali sono le principali caratteristiche di ciascuna e come contribuiscono agli sviluppi delle ricerche?
I primi studiosi a essersi misurati con il tema dell’esteticità quotidiana, i teorici dell’EA, si sono mossi generalmente o in continuità o in discontinuità rispetto alla tradizione estetologica consolidata. In alcuni dei vari tentativi effettuati nell’alveo degli sforzi teorici dell’EA, in cui è talvolta prevalsa la preoccupazione di rendere evidente la novità della linea di ricerca in questione, è stato rilevato, da parte di un altro gruppo di studiosi, i cosiddetti meta-teorici, un potenziale rischio di lassismo. Nei vari contributi meta-teorici, è stato possibile evidenziare la comune volontà di identificare un aspetto dell’estetico in grado di conferire maggiore rigore a un campo di indagine cruciale per l’estetica contemporanea, ma che allo stesso tempo ha rischiato di sfociare in un detestabile “anything goes”. Tale aspetto è stato identificato in un principio intersoggettivo-continuista dell’esperienza, per il quale l’estetico troverebbe la propria ragione d’essere né nella privatezza né nell’assoluta eccezionalità di un’esperienza effettuata in una sfera isolata della vita, ma nella dimensione della condivisione (verbale o anche solo gestuale, ma comunque espressiva) di un giudizio di gusto formulato e plasmato nella continuità dei vari livelli in cui l’esperienza sensibile si articola.
Insieme alle specificità dell’esperienza estetica che si compie nel quotidiano mediante il design, nel tuo libro il concetto di “gratificazione” è decisivo anche per individuare le specificità dell’estetico. Perché è così importante rispetto a questo secondo tema?
L’aspetto della gratificazione era emerso nel libro in relazione alla capacità del design di agevolare il corso esperienziale in modo non frustrante per l’individuo, innestandosi sulla sua esperienza e intensificandola positivamente. Uno scarto rispetto alla tradizione dell’estetica sembrerebbe profilarsi anche qui. Si pensi al rilievo acquisito dai temi del disgusto e del disarmonico come valori positivi, almeno in potenza, dal punto di vista dell’arte secondo l’estetica moderna; laddove sembra impossibile parlare, invece, di un valore estetico-quotidiano correlato direttamente a esperienze disgustose o disarmoniche vissute in prima persona. In realtà, la centralità della gratificazione persiste: chi, ad esempio, predilige ciò che noi riteniamo disgustoso, lo fa perché lo trova “gustoso”, in qualche modo dunque gratificante. E questo è tanto più vero quando anche il design di esperienza può progettare dispositivi o pattern che mirino a creare situazioni in cui le esperienze non sono facilitate in termini di realizzazione, ma in termini di “condensazione” di un’esperienza negativa, o almeno perturbante, che non sarebbe esperibile altrimenti, almeno non in modo ordinario (come è il caso dello Speculative, Critical e Radical Design, ad esempio).
Soffermiamoci ancora sul design: tenendo conto dei diversi livelli che lo rendono possibile (progettuale, operativo, funzionale), qual è la sua influenza alla luce del ruolo della immediatezza esperienziale che lo caratterizza?
Di nuovo, ritengo che per comprendere la portata attuale del design lo si debba intendere nella sua cifra esperienziale. Parlare di design di esperienza sembra ossimorico, in quanto quest’etichetta descrive la progettazione, dunque la mediazione “artificiale”, di ciò che dovrebbe intrinsecamente essere “spontaneo”, “naturale”, “immediato”, come l’esperienza. E un design d’esperienza è tanto più di successo quanto più rende naturale, immediata, l’artificialità – la mediazione – dei processi che mette in atto, quasi seguendo il principio dell’ars est celare artem. In questo senso, è possibile trarre una duplice implicazione: da un lato, si fa chiaro il suo potere d’impatto sulla realtà sociale, che innerva e alla quale offre dei framework esperienziali “intensificati” che dovrebbero supportare il corso esperienziale per il meglio; dall’altro, invece, diventa innegabile il rischio di una opacizzazione dei meccanismi con cui avvengono certi processi, e dunque la potenziale perdita della capacità di gestire il reale, di generare nuovo significato e, più in generale, di esperire. E questo ci porta nuovamente alla delicata questione della necessità dell’acquisizione e dell’esercizio di una qualche abilità che passa prioritariamente per la sensibilità, ovvero per l’estetico, e che dovrebbe implicare il saper lasciare agire e agire nei framework esperienziali progettati in cui e grazie a cui oggi ci muoviamo.
Davide Dal Sasso
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati