Se domandiamo a qualcuno di citare i cinque, o dieci, grafici italiani più influenti dal Dopoguerra a oggi, ci sono forti chance che la lista sia composta esclusivamente da nomi maschili. Come spesso accade, però, la realtà della professione è diversa dalla sua rappresentazione. Le donne che si occupano a vario titolo di graphic design sono tantissime, le troviamo negli studi, nelle aziende e nelle università, e gli artefatti grafici che popolano le nostre vite (copertine di libri e riviste, manifesti, loghi di aziende e prodotti…) sono prodotti in egual misura da ingegni femminili e maschili. Scavando tra le pieghe della storia, inoltre, è possibile rintracciare tutta una serie di figure femminili di grande talento, spesso ignorate dai loro contemporanei. L’AIAP – Associazione italiana design della comunicazione visiva lavora da diversi anni per cercare di recuperare quel gap di visibilità, in particolare attraverso l’Aiap Women in Design Award (AWDA): un premio, giunto alla sua quinta edizione, che si rivolge alle progettiste, alle docenti e alle studentesse del design grafico. Nel tempo, attorno ad AWDA si è costituito una sorta di osservatorio permanente sulle questioni di genere e le proposte presentate nella terza e nella quarta edizione sono state raccolte in un volume dal titolo Uncover, assieme a riflessioni teoriche sui temi del lavoro femminile e dei diritti. Abbiamo approfittato dell’imminenza della quinta edizione del premio – con una call aperta e la premiazione in programma per il mese di ottobre – e della presenza del progetto grafico del libro nel percorso della mostra Italy: A New Collective Landscape allestita all’ADI Design Museum per fare una chiacchierata con Laura Moretti, Cinzia Ferrara e Carla Palladino (tutte e tre designer e docenti, attive in Aiap e tra le storiche organizzatrici del premio) su presente e futuro della disciplina.
Il mondo del design (in generale, e del graphic design in particolare) è stato a lungo un mondo maschile. Il panorama del nuovo design italiano che emerge da ITALY: a new collective landscape sembra meno monolitico, con tanti progetti a opera di giovani donne designer. Il gap di genere si sta riducendo davvero?
Per comprendere appieno il dato che emerge dalla composizione dei partecipanti alla mostra ITALY: A New Collective Landscape bisogna adottare una duplice ottica: quella relativa alla formazione che vede, ormai da oltre un decennio, un superamento in termini numerici di studentesse iscritte a corsi di design di primo e secondo livello rispetto alla componente maschile, e quella relativa alle mutate condizioni sociali. Le due ottiche vanno poi sovrapposte e nello scenario che emerge le donne, anche se ancora lontane da una effettiva equità di genere, hanno quantomeno conquistato una maggiore presenza numerica nel mercato del lavoro. Questo anche grazie all’adozione delle quote rosa, che per quanto criticate sono utili e purtroppo ancora necessarie.
C’è spazio per un’ulteriore evoluzione?
Nell’immediato, e nel tempo, questo determinerà secondo noi una maggiore azione di pressione sui governi per indurre un processo di cambiamento sociale che è già in atto, ma lento e ancora lontano dal completarsi.
Tra le vostre azioni c’è stato un lavoro di scavo nella storia del graphic design, che ha riacceso l’attenzione su designer e illustratrici del passato, per esempio Claudia Morgagni e Lora Lamm. Che cosa ci possono insegnare oggi i loro percorsi?
I percorsi delle donne designer nella storia della disciplina, o per lo meno quel campione significativo che AWDA ha fatto emergere negli anni, sono storie eroiche di donne che dovevano scegliere tra la famiglia e il lavoro, oppure trovare la quadra tra la gestione della vita familiare e l’attività lavorativa. Il compito della cura e dell’educazione dei figli, a cui spesso si aggiunge la gestione degli anziani della famiglia, è sempre stato delegato alle donne. Se una di loro voleva avere una vita professionale autonoma doveva fare i conti con tali convenzioni sociali profondamente radicate nel tessuto culturale e mai del tutto estinte. Lora Lamm (Arosa, Svizzera, 1928), per esempio, fu spostata in un reparto frequentato da operaie, fuori dall’ufficio tecnico dove sarebbe stata l’unica donna tra colleghi uomini e dove la sua presenza veniva considerata “sconveniente” o “di disturbo” per la quiete lavorativa. Per questo lasciò presto l’incarico per trovare sempre a Milano, alla Rinascente, uno spazio di lavoro più aperto, privo di pregiudizi e adatto alle sue ricerche.
Quali erano allora i principali ostacoli che impedivano alle donne di ottenere lo stesso successo dei loro colleghi?
Nel Dopoguerra, e nei decenni successivi della ricostruzione e del boom economico, dalle donne ci si aspettava prioritariamente la costruzione di una famiglia, piuttosto che di una posizione lavorativa che avrebbe consentito loro di essere autonome economicamente e affrancate dal potere decisionale del padre, prima, e del marito, poi. Non sempre la donna poteva decidere liberamente del proprio futuro in una cultura patriarcale. Paradossalmente, gli esempi delle designer storiche – Claudia Morgagni (Milano, 1928-2002), Anita Klinz (Abbazia, Croazia, 1923-2013), Lica Steiner (Milano, 1914-2008) e altre ancora poco note – sono virtuosi e paradigmatici ancora oggi. Il nostro intento è duplice, farle emergere per completezza storica e per raccontare storie che hanno ancora tanto da insegnare in termini di coraggio, determinazione, self-confidence.
Che cosa si potrebbe fare, secondo voi, per rendere la disciplina più aperta e inclusiva?
Se sul piano della formazione le differenze si sono di fatto livellate, sul piano lavorativo ancora queste permangono per quanto riguarda l’inserimento, la possibilità di carriera, il riconoscimento e il divario salariale, nonostante sia del 1956 la legge sulla parità retributiva tra uomo e donna. Parecchie iniziative statali nate per incentivare e tutelare le donne lavoratrici, imprenditrici e libere professioniste andrebbero mantenute e rafforzate e non ridimensionate, come ad esempio sta accadendo con Opzione Donna.
Altri esempi?
Nella manovra finanziaria dell’attuale governo non sono previsti investimenti per favorire l’occupazione femminile, sviluppare i servizi sociali come gli asili nido. Il mese di congedo di maternità andava esteso anche per gli uomini, per spezzare la convinzione che la cura dei figli sia solo un carico femminile. Quello che vogliamo dire è che è necessario ragionare in termini non di singola categoria o ambito disciplinare ma utilizzare gli strumenti del design per incidere in maniera trasversale sull’evoluzione culturale, sulla trasformazione della società, in definitiva sulla vita delle persone: non a caso, si parla oggi di progettazione intersezionale.
Quali sono i vostri progetti più recenti in questo senso?
In UNCOVER abbiamo aperto una sezione in ascolto di attiviste e figure di provenienze diverse impegnate nelle tematiche relative alle questioni di genere, mentre nell’edizione 2023 del Premio abbiamo inaugurato una menzione speciale AWDA for Rights! proprio per fare emergere progetti che affrontano tali tematiche. La nostra idea è di fare rete e sistema trasformando AWDA in una piattaforma reale e virtuale in cui ci si possa incontrare, discutere, confrontarsi e provare a modificare tutto ciò che non accoglie le diversità, siano esse di genere o altro, come una ricchezza da coltivare.
Giulia Marani
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