Designer, architetto, artista, editore. Rivoluzionario, ma gentiluomo dell’alta borghesia milanese. C’è tutto attorno alla figura di Alessandro Mendini (Milano, 1931 – 2020): dalla storia dell’arte, alla letteratura. Proust nella sua celebre Poltrona, il Pointillisme di Signac in ogni suo mosaico di colori, fino al Surrealismo citato tra le righe dei suoi pezzi di re-design: il mobilio comune e banale rivisto dal suo estro policromatico e irriverente. Come egli stesso suggerisce nei suoi scritti, considerare l’architettura, l’arte, e il design mendiniani in ranghi separati è impossibile. La sua mitologia trascende i confini settoriali. È eterogenea, ma con un fondo di continuità, dato dall’unica mente creativa che le ha prodotte, e dagli alfabeti segnici da questa immaginati. Mendini – come ricorda lo storico dell’architettura Fulvio Irace – aveva bisogno di raccogliere e organizzare informazioni. Continuamente. E lo faceva attraverso le riviste. Cibatosi di queste, ne faceva tesoro per ideare i suoi progetti, come un drago avrebbe fatto con oro e gioielli. E non a caso, è il drago l’immagine scelta a dare il titolo alla grande mostra che Triennale e Fondation Cartier propongono a Milano per ricostruire la sua storia. Immagine a sua volta ripresa da un suo autoritratto del 2006, in cui si raffigura, appunto, come un drago. È un disegno semplice, dallo stile infantile, ma cattura tutta la complessità di Alessandro Mendini.
Tutte le “parti del corpo” del drago Alessandro Mendini
Per capire e apprezzare le opere di questo personaggio – una professione sola e precisa non gliela si può associare – si comincia dunque da qui: dalla sua effigie dragonesca multicolore. Assemblando le didascalie esplicative di ciascuna parte del corpo di questo drago, si ottiene quanto segue: testa da designer, mani da artigiano, corpo da architetto, gambe da grafico, piedi da artista, coda da poeta… e persino un petto da manager e la pancia tonda da prete. Una lista di sfaccettature che sembra inverosimile avere tutte insieme in un’unica persona. Ma è così: è stato lui stesso a sottolineare più volte la sua passione per la molteplicità. “Io sono un puntinista. Essere puntinista significa essere interessato al piccolo, dove tante cose piccole messe insieme formano un’immagine. E se tutto il piccolo è di qualità, allora anche il grande sarà di qualità”. La mostra curata da Fulvio Irace, con oltre quattrocento opere, illustra tutti i lati principali di Alessandro Mendini, intrecciando i lavori alla biografia di questo milanese che abbandonò il futuro di ingegnere (caldamente sostenuto dai genitori) che lo aspettava, per studiare architettura: disciplina forse meno impegnativa, ma con più spazio per svilupparne il lato artistico.
La mostra di Alessandro Mendini alla Triennale di Milano
Il grandioso progetto espositivo, nelle sue sei sezioni, racconta i diversi profili di Mendini, culminando in un’installazione omaggio alla sua figura realizzata da Philippe Starck. Un riassunto, quest’ultima opera, che vuole trasmettere l’eredità che il designer milanese ha lasciato al discepolo francese.
Alessandro Mendini editore e poeta
Il percorso di scoperta di Alessandro Mendini comincia considerando la sua anima letteraria. Scrivere è per lui già come progettare: la parola è un mezzo potente per esprimere le immagini poi concretizzate. E questo è ben evidente considerando la quantità di testi, pensieri e vocaboli disseminati qua e là, tra schizzi e bozzetti più o meno seri. Due pareti della mostra brulicano di fogli in cui il disegno coesiste e si completa con le parole. Ne risulta un mosaico di lavori che rimbalzano tra il ricordare gli scarabocchi a pennarello fatti da bambini particolarmente creativi, e le opere vicine alle parole in libertà del Futurismo.
Il Mendini scrittore è però anche – e forse prima di tutto – editore. La sua presenza nel settore delle riviste di architettura comincia infatti prestissimo, facendosi terreno fertile in cui affermare le proprie idee avanguardistiche. A differenza di Ponti, fedele per tutta la vita a una sola testata, la carriera editoriale di Mendini (come si rileva in mostra) passa attraverso Casabella, Domus, Modo, poi Ollo (esperimento in soli due numeri), e ancora Domus nel 2010. Riviste diversissime, il cui filo conduttore – come sostiene Beppe Finessi – è quello di essere tutti luoghi in cui incrociare pensiero e progetto, tracciandone le teorie di base.
Alessandro Mendini artista
La prima sezione espositiva – Identikit – suggerisce in modo eloquente la centralità del disegno per Mendini. Lui stesso, nella lettera scritta ai familiari per comunicare loro la sua decisione di passare dal corso di Ingegneria a quello di Architettura, espresse questa sua attitudine creativa: “Io, se nella mia professione riuscirò a valere qualcosa non sarò certo dal lato tecnico della materia, ma dal lato artistico”. Il disegno è per lui linfa essenziale, è una forma di meditazione, di preghiera quotidiana. È un bisogno: bisogno di mettere insieme i pensieri e fissarli, così da creare la base per costruire progetti concreti. E per disegno non si intende quello tecnico orientato a scopi lavorativi. Piuttosto, è un qualsiasi segno di colore sulla carta, che fa da specchio al mondo di idee di cui la sua mente è ricolma. Come raccontano i tantissimi esempi raccolti in mostra, i fogli diventano l’ambiente vitale di strane creature antropomorfe e zoomorfe, edifici utopistici, ritratti e autoritratti ironici e surreali.
Alessandro Mendini designer
Sono gli Oggetti a uso spirituale (performance artistiche lontane dalla razionalità del loro utilizzo consueto) ad introdurre in mostra il lato di designer di Alessandro Mendini. “Tendo a romanzare gli oggetti” – dice, in riferimento alla sua propensione a ricoprirli di texture colorate e arricchirli di elementi artistici, che vanno bel al di là della funzione di base. Questa commistione tra discipline progettuali e creatività è la radice del Radical Design, di cui egli stesso è uno degli esponenti. Emblematica in questo senso è la Poltrona Proust, di cui la mostra offre un esemplare alto tre metri che fa da introduzione a tutto il percorso.
Accanto a questi esperimenti, però, Mendini si dimostra anche un validissimo progettista per l’industria. La lunga collaborazione con Alessi ne è uno dei risvolti più riusciti. In esposizione, La giostra delle meraviglie (2000) riassume l’intera gamma pensata da Mendini per l’azienda italiana; il Cavatappi Anna G. ne è forse il pezzo più famoso.
Alessandro Mendini architetto
Accanto all’arte e al design, c’è l’architettura, paradossale o rigorosa, a seconda delle volte. L’esposizione di Triennale raccoglie entrambi gli aspetti. Stupisce l’osservatore con la sezione La Sindrome di Gulliver – esempi di una “ginnastica squilibrante” che lavora sulle dimensioni, proponendo una serie di giganti… in miniatura. La Pétite Cathédrale ne è un esempio: una piccola chiesa a metà tra struttura architettonica e scultura.
Le Architetture ripercorre invece attraverso una ricca collezione di modelli in miniatura, le opere architettoniche realizzate dall’Atelier Mendini. Spicca il progetto per il Groningen Museum in Olanda, che si può ritenere uno dei lavori in cui l’ideale del Mendini architetto si esprime con più chiarezza. È infatti un progetto collettivo, realizzato chiamando a raduno numerosi progettisti collaboratori, a cui viene lasciata ampia libertà. Una summa di creatività e idee variegate.
Le Stanze di Alessandro Mendini
“È la ‘stanza’ il luogo in cui abita il drago: il rifugio più intimo che riproduce il ricordo primordiale dell’infanzia”. Così illustra il curatore Fulvio Irace, riferendosi all’ultima sezione della mostra. Le Stanze, per l’appunto. Su quali possano essere i ricordi ambientali di Mendini, il pensiero si indirizza subito verso quella che è oggi la Casa Museo Boschi di Stefano: oggi istituzione culturale milanese, allora luogo di famiglia (degli zii, per la precisione) per il designer. Le sue memorie d’infanzia sono legate alle tante opere d’arte in essa conservate. “Ho il ricordo di essere nato in una Wunderkammer”. Tra gli Anni Settanta e Novanta, Mendini progetta una serie di “camere” senza finestre. Contenitori di idee concettuali, in cui si uniscono ricordi, sogni, proposte e persino incubi. È infatti un incubo l’ultima tappa della mostra, che riallestisce Le mie prigioni – un piccolo ambiente cubico da lui pensato per Triennale nel 2016. Più ottimistica, seppur con un’atmosfera d’attesa poco rassicurante, è la prima che si incontra lungo il percorso. Un sunto del puntinismo mendiniano applicato a ogni genere di supporto: dalla carta da parati, al divano… fino a un immancabile esemplare di Poltrona Proust, questa volta a misura d’uomo. Al centro, adagiato di schiena sul tappeto, un Pinocchio multicolore che sembra in procinto di compiere un passo verso l’alto. Verso l’infinito: verso chissà quale universo che solo la mente di Alessandro Mendini sarebbe stata in grado di immaginare.
Emma Sedini
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