A Torino torna Earthrise tra design ed ecologia sociale. Intervista al curatore 

Salvatore Peluso ci racconta la seconda edizione di Earthrise da lui curata. Al Circolo del Design otto progettisti più un’installazione sonora e una residenza d’artista: raccontano come l’ecologia si intreccia alla geopolitica

Con L’ecologia è sociale, in pratica, la mostra (e non solo) a cura di Salvatore Peluso sviluppata per la seconda edizione del suo appuntamento annuale Earthrise, il Circolo del Design sceglie di affrontare un tema di grande attualità presentando una serie di progetti realizzati da architetti e designer italiani ed europei, accumunati dalla riflessione sulle più urgenti questioni sociali poste in relazione alla crisi ambientale globale: le migrazioni come conseguenza del cambiamento climatico, la nascita di zone sacrificali, i costi ecologici dell’industria delle costruzioni, l’accumulo di materie plastiche nell’ambiente, il riuso degli scarti edili, la perdita di biodiversità, la cura del territorio in contesti metropolitani e territoriali, lo sfruttamento di risorse naturali scarse. Al centro ci sono otto progetti principali (alcuni inediti, altri già noti) e due speciali selezionati per l’attinenza alla filosofia radicale dell’ecologia sociale, quel campo interdisciplinare che spazia dall’architettura all’economia, dalla teoria politica all’antropologia fino alle scienze naturali, ispirato al pensiero anarchico di Murray Bookchin (1921- 2006) e al suo libro L’ecologia della libertà, considerato un classico del pensiero utopico.  

I progetti di Earthrise a Torino 

L’obiettivo di questi progetti? Utilizzare il design come strumento progettuale attraverso il quale realizzare azioni collettive capaci di avere un effetto trasformativo sulle comunità in cui agiscono. Il tavolo Fulcrum del centro di ricerca palermitano Marginal Studio, è caratterizzato da intarsi in legno di mango, una pianta tropicale sempre più coltivata in Sicilia, dove spesso va a sostituirsi agli agrumeti, e nasce dalla collaborazione tra artigiani locali e migranti. Questo aspetto avvicina il progetto a quello più conosciuto delle PET Lamps, ideato nel 2012 dal designer spagnolo Alvaro Catalán De Ocón e oggi esteso globalmente, che trasforma bottiglie di plastica riciclate in lampadari unici utilizzando tecniche artigianali tradizionali con il supporto delle comunità locali.  

Progettare per riflettere su ecosistemi e geopolitica 


Cantiere Aperto di Studio Gisto, frutto della collaborazione con Hypereden e Hund studio, utilizza invece sabbie e inerti prodotti dalla frantumazione di macerie dei cantieri edili trasformandoli in semilavorati utili per la realizzazione di nuovi oggetti grazie al coinvolgimento delle comunità che poi li utilizzeranno. Con il progetto Floating University, nell’ex aeroporto di Tempelhof, a Berlino, la scala si fa invece urbana: in un bacino pluviale parzialmente contaminato, ricercatori provenienti da diverse discipline esplorano forme alternative di convivenza trasformando lo spazio in un ecosistema unico. Avviato nel 2018 dal gruppo di architetti Raumlabor, il progetto offre al pubblico workshop ed eventi culturali. Tabula Bosco Colto del collettivo Makramè esplora nuove forme di arte e architettura attraverso un laboratorio sperimentale sul paesaggio dedicato al territorio dell’avanfossa Gela-Catania e una serie di terrari che raccontano le diverse ecologie presenti nella zona di Santo Pietro. Dalla terra, alla sabbia: nel progetto degli olandesi Atelier NL, To See a World in a Grain of Sand (la citazione è da William Blake), campioni di sabbia raccolti in varie località del mondo attivano una riflessione geopolitica riguardo l’industria del vetro. 

Le iniziative di POST DISASTER e Station+ ad Earthrise 2024 

Il collettivo POST DISASTER utilizza la metafora del disastro come lente territoriale per comprendere tensioni globali, e porta ad Earthrise 2024 il tema della lista ONU delle “zone di sacrificio” occidentali. Tra queste, Taranto, dove il collettivo ha dato vita a Post Disaster Rooftop, una messa in scena sui tetti della Città Vecchia intesi come spazi urbani non convenzionali, a metà tra pubblico e privato, da cui si può avere una visione d’insieme del disastro ecologico di cui il territorio è stato vittima e, allo stesso tempo, immaginare futuri alternativi. Nella stessa direzione va anche l’ultimo progetto presentato, HouseEurope!,  l’iniziativa promossa dalla piattaforma di insegnamento e ricerca Station+ (s+), dell’Istituto per il Design – Dipartimento di Architettura – ETH Zurigo e dallo studio di architettura B+, che promuove la riqualificazione degli edifici piuttosto che la loro demolizione. A questo proposito in mostra sarà possibile per i visitatori firmare la proposta di legge europea “renovate, don’t speculate”. 

I progetti speciali di Earthrise 2024: un’installazione sonora e una residenza d’artista 

Per essere ancora più immersiva, la mostra prevede anche una sonorizzazione ambientale, un sound collage che unisce una selezione a cura di Terraforma e Threes Productions. Mentre, in concomitanza della Torino Art Week, sarà presentato il risultato della residenza esito del bando europeo “Culture Moves Europe”, che dal 16 settembre al 5 novembre coinvolgerà il designer tedesco Jannis Zell (1992, Stoccarda) e la sua proposta progettuale Polyurethane Dreams

Intervista al curatore Salvatore Peluso 

Giornalista, educatore e curatore indipendente, Salvatore Peluso è tra le anime di Dopo?, lo spazio condiviso al Corvetto che accoglie ‘la meglio gioventù’ del design milanese. Laureato al Politecnico, è attivo tra Milano e Catania, dove per l’Accademia di Design e Comunicazione Visiva Abadir ha ideato il master Heritage Innovation, che si occupa della riprogettazione dei territori marginali e delle aree interne con un approccio transdisciplinare. 

Partiamo dai fondamentali: come è iniziata questa collaborazione? 
Il Circolo del Design ogni anno chiama un giovane curatore e gli chiede una sua personale interpretazione del tema della crisi climatica globale, per indagarlo attraverso la lente del design.  

E la scelta del tema, così urgente? 
La mostra nasce dalla consapevolezza che la crisi climatica è collegata a diverse questioni sociali e politiche. La rilettura di Murray Bookchin ci invita a non nasconderci, a riporre fiducia nei mezzi tecnologici, ad avere un approccio sistemico ai problemi. Pensiamo per esempio alle politiche urbane attuate a Barcellona, alle lotte per la casa o la terra, con elementi di giustizia insieme sociale ed ecologica. Adottare uno sguardo allargato e trasversale ci permette di evidenziare l’interconnessione tra diversi sistemi di disuguaglianza, discriminazione e sfruttamento, affermando la necessità di soluzioni olistiche. Il tavolo Fulcrum ne è il perfetto esempio: nasce infatti, dal lavoro sinergico tra migranti e artigiani locali, mettendo a sistema competenze, tecniche e materiali. 

Raccontaci come hai affrontato questa curatela 
Sono partito facendo una maxi selezione di 50 progetti, poi scremata a 8+2 speciali. L’idea iniziale era quella di raccontare solo designer siciliani, ma ho capito che sarebbe stato uno sguardo parziale. Alla fine ho selezionato metà progetti italiani e metà stranieri scegliendo però di escludere i progetti extraeuropei, perché non sostenibili, né economicamente né per via dei chilometri che i pezzi avrebbero dovuto percorrere per essere messi in mostra a Torino.  
 
E per quanto riguarda l’allestimento? 
Lo sforzo più grande si è concentrato nel rendere questa mostra parlante, oltre che con l’installazione sonora – un secondo allestimento, effimero, per facilitare l’immersione dell’utente verso lo spazio e i pezzi – con didascalie ingigantite e pannelli come quinte. Torino non è Milano, ci sono dinamiche differenti legate al design: qui il pubblico è trasversale e la mostra deve avere forti finalità didattiche e comunicative. Per questo abbiamo voluto dare delle chiavi di lettura ulteriori per inquadrare il tema mettendo insieme progetti di ricerca meno noti al pubblico e pezzi più riconoscibili: come la PET Lamp, che ha compiuto dieci anni e lo sforzo più grande si è concentrato nel rendere questa mostra parlante, oltre che con l’installazione sonora – un secondo allestimento, effimero, per facilitare l’immersione dell’utente verso lo spazio e i pezzi – con didascalie ingigantite e pannelli come quinte. Torino non è Milano, ci sono dinamiche differenti legate al design: qui il pubblico è trasversale e la mostra deve avere forti finalità didattiche e comunicative. Per questo abbiamo voluto dare delle chiavi di lettura ulteriori per inquadrare il tema mettendo insieme progetti di ricerca meno noti al pubblico e pezzi più riconoscibili: come la PET Lamp, che ha compiuto dieci anni e continua a crescere. continua a crescere. 

I progetti presentati alla fine sono molto diversi tra loro… 
A me piace fare confusione tra le scale: qui non si va solo dal cucchiaio alla città ma dalla decorazione alle leggi europee. Quando parlo di design, io parlo di progetto e di designer che sono facilitatori di processi collettivi, mai di nicchia. Pensiamo, per esempio, al lavoro dei berlinesi RAUMLABOR e all’impatto che ha avuto sulle persone e sulla città.

Qual è la tua idea di design quindi? 
Un’espressione di dialogo. Guardo al design come una disciplina in cui saperi, linguaggi e tecniche diverse si possano incontrare. È uno dei luoghi privilegiati in cui possiamo ibridare arti e scienze, e da cui far emergere riflessioni d’interesse generale, non solo dedicate a specialisti di settore. Il design aiuta la presa di coscienza creativa collettiva. Obiettivo della mostra è anche dimostrare che il progettista non deve essere per forza un personaggio eroico e solitario (e qui uso volutamente il maschile singolare), che impone la sua visione alla società, ma una figura capace di ascoltare e di mettersi al servizio della collettività.

Oltre la mostra durante il semestre ci saranno molte altre iniziative collaterali. Ce ne parli? 
Proprio per rendere la fruizione di queste tematiche ancora più allargata e trasversale, abbiamo deciso di comporre un sistema di azioni ed eventi nati con l’idea di aprire invece di chiudere. Con la cadenza di una al mese circa, abbiamo organizzato una serie di attività collaterali e laboratoriali per esperire fisicamente e in modi differenti il tema scelto. Ad esempio un’esperienza gastronomica antispreco con Roberta di Cosmo, una biciclettata sulle spiagge urbane del Po insieme alla Critical Mass, il concerto “Suonare l’aria”, in collaborazione con il Consorzio Wunderkammer di Ferrara, in cui i dati di qualità dell’aria sono tradotti in musica.

Da questa mappatura che cosa è emerso? 
Che il design deve dare risposte, non solo offrire spunti di riflessione. Suo compito è trovare nuovi linguaggi inclusivi per rendere possibili processi collettivi. Il design è un atto politico.  

Giulia Mura 

Libri consigliati: 


Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati

Giulia Mura

Giulia Mura

Architetto specializzato in museografia ed allestimenti, classe 1983, da anni collabora con il critico Luigi Prestinenza Puglisi presso il laboratorio creativo PresS/Tfactory_AIAC (Associazione Italiana di Architettura e Critica) e la galleria romana Interno14. Assistente universitaria, curatrice e consulente museografica, con…

Scopri di più