Tupperware: la storia di plastica e di design che volge al termine
L’azienda americana che ha lanciato l’iconico contenitore per alimenti è a un passo dalla bancarotta. Ecco la sua storia, dalla nascita al declino, passando per la conquista delle consumatrici attraverso i Tupper-party, l’ingresso nelle collezioni dei grandi musei internazionali e il recente tentativo di svecchiare il marchio
Ci sono aziende talmente famose, e prodotti così capillarmente diffusi nelle case, che il loro nome proprio diventa un sostantivo di uso comune. È il caso di Tupperware, lo storico marchio americano che dopo un lungo declino ha da poco avviato una procedura di fallimento: il suo contenitore per alimenti in plastica, ermeticamente sigillato, è oggi esposto nei più importanti musei di design del mondo. Un oggetto del quotidiano per quasi tutti, familiare al punto da passare inosservato e da farci dimenticare quale sia stato il suo impatto in una società in rapido divenire come quella del dopoguerra, con un nome che riprende direttamente quello del suo inventore.
Tupperware: la ciotola delle meraviglie
La sua storia comincia infatti nella seconda metà degli Anni Quaranta, quando Earl Tupper, un chimico che aveva lavorato anche per il gigante DuPont nella sede centrale del Delaware, inizia a progettare dei prodotti per il mercato consumer in polietilene, un materiale innovativo parente della plastica fino a quel momento usato principalmente in ambito bellico. Il primo “Tupperware” è una ciotola leggerissima e infrangibile color pastello con un coperchio che si chiude ermeticamente grazie a un sistema a pressione ispirato a quello dei barattoli di vernice. Quando viene lanciata la Wonderlier Bowl (ciotola meraviglia), questo il nome commerciale del primo modello immesso sul mercato, viene apprezzata dagli esperti per il suo design fresco e fuori dagli schemi ma non viene capita dal pubblico e i negozi di casalinghi faticano a venderla.
I Tupper-parties e l’emancipazione femminile
A trovare la chiave giusta, dando il via a un vero e proprio fenomeno di costume, è una madre single trentacinquenne, Brownie Wise, che trasforma il flop momentaneo in un incredibile successo inventando i Tupper-party, le riunioni durante le quali le casalinghe potevano assistere a dimostrazioni dell’utilizzo delle ciotole miracolose bevendo qualcosa e chiacchierando tra loro, e alla fine piazzare un ordine oppure tornare direttamente a casa con i prodotti sottobraccio.
Queste feste movimentavano la noiosa vita dei sobborghi in due modi diversi: da un lato, fornivano un’occasione di ritrovo e di svago alle abitanti contribuendo ad alleviare quello che la scrittrice femminista Betty Friedan definirà nel suo libro del 1963 La mistica della femminilità, il “problema inespresso” delle casalinghe. Dall’altro consentirono ad alcune di loro di avviare una propria attività professionale come “Tupper lady”. Nel corso degli Anni Cinquanta, mentre gli interni domestici statunitensi (e a ruota quelli europei) si popolavano di oggetti nati per semplificare il quotidiano, dal frigorifero alla lavatrice, i contenitori colorati e i Tupper-party diventavano sempre più un simbolo della vita suburbana.
Tupperware e il tentativo di rebranding
L’azienda americana, che già prima di annunciare il fallimento non doveva navigare in ottime acque, ha recentemente tentato un rebranding affidando la creazione di un nuovo logo e di una nuova immagine coordinata alla notissima agenzia Landor. I creativi hanno ripreso quella che è la caratteristica fondamentale dei contenitori Tupperware, il sistema di apertura e chiusura ermetica, e l’hanno integrato con un risultato esteticamente convincente nella “T” del logo, ma non è bastato. Tra i problemi c’era forse l’esistenza sul mercato di tantissimi concorrenti che fanno prodotti simili a prezzi inferiori e la cattiva reputazione della plastica, soprattutto tra le nuove generazioni, che tendono a preferire materiali più green come il bambù o il metallo – già in uso prima della massiccia diffusione delle materie plastiche nella società – per i loro portapranzo. A questo proposito vale la pena ricordare una storia tutta italiana: quella della “schiscetta” in alluminio inventata (e brevettata) nel 1952 da Renato Caimi, fondatore insieme al fratello dell’azienda di design Caimi Brevetti.
Giulia Marani
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