L’intelligenza artificiale spiegata bene. Intervista allo studio di design Dotdotdot

Lo studio multidisciplinare milanese, che conosciamo per le sue installazioni a cavallo tra design, tecnologia e racconto, è da poco volato in Cina per parlare di bias algoritmici e polarizzazione dei dati. Abbiamo ragionato con loro sul ruolo del sapere umanistico nel capire, e a far capire, l’IA

Chi ha visitato la sede dello studio Dotdotdot in Via Tertulliano durante l’ultima edizione del Salone del Mobile ricorderà un’installazione affascinante che affrontava un tema caldo e cruciale come la creazione dei dataset – gli sterminati archivi di dati usati per l’addestramento delle intelligenze artificiali – in maniera inconsueta: mettendo, cioè, gli insetti al centro di un racconto che è solitamente tarato sull’uomo. Interagendo con otto totem, i visitatori potevano chiedere a due AI generative diverse, “allenate” su basi di dati differenti, di produrre in tempo reale delle immagini di insetti. Le immagini create dall’algoritmo nutrito con informazioni standard reperite su internet erano piatte e noiose, quelle generate a partire da dati raccolti e selezionati da un entomologo, quindi con una curatela attenta e consapevole, erano invece decisamente più belle, con una varietà ben maggiore di forme e colori.

Ritratto dei membri dello studio Dotdotdot. Photo DSL Studio Piercarlo Quecchia
Ritratto dei membri dello studio Dotdotdot. Photo DSL Studio Piercarlo Quecchia

I Dotdotdot e lo studio dei dataset dell’IA

L’obiettivo di Data Bugs – AI is a mirror era mostrare i rischi connessi alla polarizzazione che l’uso di queste nuove tecnologie necessariamente comporta, a meno che non si presti un’attenzione particolare a come vengono costruiti i dataset. In natura esistono, per esempio, oltre 14mila specie di formiche, ma se ci affidiamo totalmente all’intelligenza artificiale rischiamo di conoscerne due o tre al massimo.
Questo meccanismo opera anche con soggetti umani. Qualche anno fa, la studiosa australiana Kate Crawford e l’artista americano Trevor Paglen hanno passato in rassegna decine di migliaia di fotografie per studiare il modo in cui i sistemi di riconoscimento facciale vengono addestrati e l’evoluzione dei sistemi di training dai primi esperimenti della Cia negli Anni Sessanta a oggi. A emergere, dalla loro ricerca esposta anche in Italia, all’Osservatorio della Fondazione Prada, è stato soprattutto il fatto che i pregiudizi degli esseri umani si riverberano con facilità sulle macchine.

L’intervista allo studio di design multidisciplinare milanese Dotdotdot

A fine novembre i Dotdotdot hanno portato la loro installazione a Shanghai, dove sono stati chiamati a partecipare al Nowness Short Film Award 2024, il festival di corti legato allacelebre piattaforma creativa, e a condurre un workshop sulla creazione di esperienze reali e fisiche a partire dai dati. Ne abbiamo approfittato per fare una chiacchierata con Laura Dellamotta, co-founder dello studio di design multidisciplinare, sullo stato dell’arte dell’intelligenza artificiale e su come sia possibile, e anzi auspicabile, sottrarsi all’eterno scontro tra apocalittici e integrati per imboccare una terza via. Raccontare, cioè, la tecnologia a un pubblico ampio e spiegare bene come funziona, senza glorificarla né demonizzarla.

Nell’installazione “Data Bugs avete usato gli insetti per parlare di questioni che riguardano da vicino gli esseri umani. C’è un motivo, a parte il gioco di parole divertente tra “bug-insetto” e “bug-errore”?
Da quando abbiamo cominciato a usare le tecnologia abbiamo sempre cercato di metterla a disposizione delle persone in maniera amichevole, in modo da aiutarle ad acquisire consapevolezza sul tema senza spaventarle. Uno dei primi lavori che abbiamo presentato al Salone del Mobile era un internet point in zona Tortona dove abbiamo mostrato un computer “esploso” in ogni singola componente per spiegarne il funzionamento. In questo caso avevamo in mente il discorso sulle discriminazioni di genere, il fatto che per esempio se digiti “manager di 40 anni” otterrai quasi sempre l’immagine di un uomo, ma abbiamo scelto di concentrarci su un contenuto meno profondo perché altrimenti il tema che ci stava più a cuore, cioè il funzionamento dall’AI, sarebbe passato in secondo piano.

Gli insetti hanno comunque tanto da dire.
Sì, ed è interessante che la tecnologia possa dare voce al mondo naturale. Oggi si parla moltissimo della necessità di progettare tenendo conto dell’ecosistema e abbiamo voluto spostare l’accento dall’uomo, far vedere che non siamo più human-centered ma planet-centered. In un lavoro che abbiamo fatto per il MAAT di Lisbona, per esempio, abbiamo utilizzato i dati dei satelliti che monitorano la Terra forniti dall’ente spaziale europeo per fare il punto sulla sua salute.

La tecnologia, quindi si può capire? In un momento in cui sembra che il mondo si divida tra entusiasti dell’intelligenza artificiale e apocalittici che la vedono come foriera di tutti mali, è possibile seguire una strada diversa?
Sì, si può capire, il problema è semmai che viene spiegata in maniera molto “tech” e poco umana. L’IA è un mezzo potentissimo che è stato dato in pasto al pubblico senza troppe ricerche preliminari, viene testato mentre lo usiamo. L’unica cosa che possiamo fare è cercare di comprendere come funziona. Secondo me, questo strumento non sostituirà mai le persone perché non ha tutta una serie di qualità che abbiamo noi: la cultura del progetto, l’ironia, la sottigliezza, la consapevolezza…

Un approccio più umanistico all’Intelligenza Artificiale

Il vostro invito a parlare di intelligenza artificiale in Cina è un indizio del fatto che c’è bisogno di uno sguardo più umanistico sulla tecnologia?
Assolutamente sì. Secondo noi dimostra che un atteggiamento di questo tipo crea valore perché la gente ha voglia di capire bene le cose. Avrebbero potuto chiamare tantissime realtà super-tecnologiche ma hanno scelto noi proprio per questo motivo.

Questa può essere la strada giusta per i designer europei che cercano di ritagliarsi uno spazio in un contesto “tech” globale che sembra dominato da realtà extraeuropee?
Mi auguro che sia un approccio vincente perché considera un aspetto, se vogliamo, anche poetico della tecnologia. Non sembra, ma anche la tecnologia può essere poetica. Se rendiamo il visitatore più attivo e riusciamo a “ingaggiarlo” il messaggio rimarrà con lui più a lungo. Anche il nostro nome fa riferimento a questa cosa in cui crediamo tantissimo.

Cioè?
“Dotdotdot” sono i tre puntini di sospensione alla fine di una frase o di un discorso. Da sempre ci diciamo che i nostri progetti non sono conclusi nel momento in cui abbiamo finito di progettarli ma è il visitatore a concluderli con la sua esperienza nello spazio.

La bici di ognuno, bicicletta a tre ruote personalizzabile, un progetto di OpenDot e Fondazione TOG per bam-bini con disabilità
La bici di ognuno, bicicletta a tre ruote personalizzabile, un progetto di OpenDot e Fondazione TOG per bambini con disabilità

Il progetto OpenDot e i programmi futuri di Dotdotdot

Avete anche un progetto laterale, OpenDot. Di che cosa si tratta?
Abbiamo cominciato dieci anni fa con un fablab, un luogo dove prototipare idee con delle macchine a controllo numerico. Poi, facendo workshop con scuole e istituzioni abbiamo capito che potevamo mettere il nostro know-how al servizio di progetti a impatto sociale sul territorio, soprattutto qui a Milano. Oggi lavoriamo su temi come la divulgazione della cultura alimentare, il monitoraggio dell’ambiente o l’infanzia. Per la Fondazione TOG, per esempio, abbiamo sviluppato un comunicatore che permette a bambini con neuropatologie complesse di parlare con i loro familiari e gli educatori. Un altro filone è legato al portare nelle scuole tutta una serie di conoscenze legate alle materie STEM, anche per i professori, che sono in crisi perché non hanno tutte le competenze necessarie per informare i ragazzi.

Su che cosa state lavorando in questo momento?
Abbiamo da poco lavorato con Fondazione Pirelli per riprogettare lo spazio allestitivo e creare un’installazione fisico-digitale interattiva che permettesse di navigare il loro archivio. Sulla stessa scia, abbiamo creato per Treccani uno stand per la Fiera del Libro di Francoforte in cui abbiamo riprodotto lo studiolo rinascimentale in chiave contemporanea dando ai visitatori la possibilità di interagire con oltre 33mila immagini. In generale, ci interessa molto valorizzare i patrimoni contenuti negli archivi di aziende e istituzioni.

Come si tratta una mole di informazioni così grande?
Non basta digitalizzare ma bisogna essere bravi a individuare delle storie, a suggerire dei percorsi che permettano al visitatore di approcciarsi ai contenuti senza generare frustrazione. Tutto questo non deve rimanere all’interno di un computer ma deve fisicizzarsi in uno spazio. Noi costruiamo ambienti narrativi e possiamo muoverci nel digitale puro, nel fisico puro ma anche nell’intersezione tra questi due mondi.

Giulia Marani

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Giulia Marani

Giulia Marani

Giornalista pubblicista, vive a Milano. Scrive per riviste italiane e straniere e si occupa della promozione di progetti editoriali e culturali. Dopo la laurea in Comunicazione alla Statale di Milano si specializza in editoria a Paris X-Nanterre. La passione per…

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