Gli intrecci senza tempo di Atelier Nuanda. L’intervista alla designer Cecilia Rinaldi
Conosciuta all'ultima edizione di Edit Napoli, dove ha vinto la sezione Seminario con il paravento Plico, la designer Cecilia Rinaldi, alias Atelier Nuanda, racconta luoghi di mutazione e creazione, ricerche instancabili e legami indissolubili
“L’eleganza non è farsi notare, ma farsi ricordare” disse una volta Giorgio Armani. Non è un caso caso, allora, che chiunque sia passato all’ultima edizione di EDIT Napoli lo scorso ottobre si ricordi di Plico, l’elegantissimo paravento che ha vinto con parere unanime della giuria la sezione Seminario (alla quale partecipavano prodotti inediti). Un foglio di alluminio riflettente, piegato e sagomato a formare una serie di elementi modulari tenuti insieme da un giunto strutturale in pelle intrecciata realizzato a mano: una soluzione flessibile e leggera per chiudere il divisorio pieghevole “a pacchetto”. Cecilia Rinaldi, l’anima di Atelier Nuanda, ha eleganza da vendere. Designer e artista tessile, classe 1992, ha fondato il suo studio a Bologna nel 2022 con una visione non convenzionale del design basata sullo sviluppo di progetti fortemente permeati dalle tradizioni culturali, in cui il processo progettuale interagisce con usi e costumi diversi, in armonia tra una visione contemporanea e un passato ancora vivo. “Pignola, emotiva, sensibile, molto autocritica” – così si definisce -, nel corso degli anni e attraverso l’atelier Rinaldi è stata pioniera di una tecnica innovativa di lavorazione della pelle che ha dato vita a pezzi di design artigianale caratterizzati da una struttura tessile a maglia e da un’estetica unica, profondamente autoriale. Che siano lavori apprezzati lo testimoniano le tante manifestazioni di rilievo a cui Atelier Nuanda ha già preso parte – da Alcova al Lake Como Design Festival – e i premi ricevuti nell’ultimo anno, inclusa la vittoria alla Terza Edizione del Premio Starhotels La Grande Bellezza – The Dream Factory con la raffinatissima opera Amphora.
L’intervista a Cecilia Rinaldi, designer e fondatrice di Atelier Nuanda
Raccontaci la tua storia. Come nasce Atelier Nuanda?
Sono laureata in Interior Design allo IED. Ho sempre avuto, però, una predilezione per i tessuti e le loro tecniche di lavorazione, motivo per cui per cinque anni ho voluto lavorare come designer in un’azienda tessile, un’esperienza che mi ha insegnato tantissimo. Quando poi è arrivata la pandemia mi sono sentita finalmente pronta a dare vita al mio progetto personale, fondando Atelier Nuanda in collaborazione con mio marito.
Perché questo nome?
Per sottolineare una presa di consapevolezza: arriva dal film L’attimo fuggente, quando Charlie Dalton, brillante e ribelle studente che partecipa alla rifondazione della “Setta dei poeti estinti”, si fa ribattezzare Nuwanda.
Che visione c’è dietro?
Quella di un atelier focalizzato sul valore manifatturiero, che lavora su elementi del passato riletti e trasposti in chiave contemporanea. Una sperimentazione costante del processo manuale e artigianale, partendo da materie e materiali che devono essere valorizzati, riletti, riamati.
A chi guardi con interesse e perché? Con chi vorresti collaborare?
In generale tendo a guardare molto i maestri, specialmente di fine Ottocento – inizio Novecento. Joseph Hoffmann, per esempio. Rispetto ai contemporanei invece, la condizione di collaborazione essenziale è che io mi senta libera di esprimermi e rispettata nelle mie scelte. E le tre persone con cui questo è avvenuto con grande naturalezza direi che sono Federico Peri, Caterina Frongia e Margherita Rui. Tre interpreti straordinari.
Parliamo della tua recente esperienza a Edit, dove, con il paravento Plico hai vinto nella sezione Seminario. Cosa ha comportato questa vittoria? Ha cambiato qualcosa?
Sicuramente ha aiutato la consapevolezza e concretizzato con ancor maggiore forza la vision dello studio: procedere nella sperimentazione che percorre strade parallele al mercato, focalizzandosi su un design che abbraccia molto il tema dell’artigianato.
Design quindi per Atelier Nuanda significa…?
Un esercizio spirituale che ci riporta all’origine. Ai valori culturali che ci hanno reso quelli che siamo nel mondo del design e dell’artigianato, qualcosa di unico. Io non amo seguire le tendenze, quanto creare manufatti che sanno raccontare storie, che parlano di sé stessi e non di quello che il mercato richiede. Credo molto nella responsabilità dei designer, che devono essere capaci di offrire nuovi punti di vista.
Lentezza e qualità nella maglia di Atelier Nuanda
Un approccio, il tuo, basato su lentezza e qualità.
Nel tempo ho imparato ad ascoltarmi e ad assecondare dei tempi lenti di creazione: i pezzi escono quando sono maturi. Il rallentare è un valore, perché lascia spazio al pensiero. Inoltre fa apprezzare di più le cose. Credo fermamente nel “poco ma di qualità”, perché la materia prima è tutto e va rispettata. Me l’ha insegnato mio padre, pasticcere: il segreto sono, prima di tutto, gli ingredienti di qualità. E le tecniche sapienti con cui vengono combinati.
A proposito di tecniche, parliamo della maglia.
Mia mamma e mia nonna erano magliaie. Per me è un bisogno emotivo naturale parlare di loro nei miei progetti usando questa specifica tecnica di lavorazione. Solo che io invece della lana uso il cuoio, anzi pezze di risulta del pellame, scarti da rivalorizzare che vengono trattati affinché io possa lavorarli a filato: 100% pelle di recupero conciata al vegetale. Devo dire che è da dopo un’interessante esperienza come Art Director della Giacobazzi (un’eccellenza della lavorazione artigiana di rivestimenti in legno) che con l’atelier mi interrogo – sperimentando – su nuove tecniche per la realizzazione di manufatti artigiani di autoproduzione in ambito tessile. Finalmente, dopo anni, ne ho trovata una innovativa, che dà vita a una struttura dall’estetica nuova e fresca.
I pezzi indossabili di Atelier Nuanda
Raccontaci degli altri progetti, in particolare dei pezzi wearable.
Si tratta di body ornament: mt55, per esempio, è una linea di copricapo (basco, visiera, cerchietto), un nuovo intreccio da indossare. Una collezione che combina le tradizioni dei cappelli spagnoli e coreani con l’esperienza italiana nella lavorazione della pelle, e che racconta di una leggerezza formale spontanea, di una struttura svuotata di ogni supporto, di ogni materiale superfluo, che diviene elemento portante ed al contempo decorativo grazie alla fitta trama ottenuta. Per Loewe, invece, ho utilizzato un intreccio diverso, una tecnica sviluppata a partire dalla lana a cui ho cambiato materiali, trame e spessori. L’obiettivo è, letteralmente, risolvere nodi, e si ispira alla Nodowa, la gorgiera giapponese che il samurai si stringeva a protezione della gola, composta da un insieme di lamine e lamelle in ferro o cuoio interconnesse a una base in stoffa.
Che tipo di riflessione c’è dietro questi lavori?
Nascono dal desiderio di esprimere e raccontare la visione di Nuanda di una moda architettonica, fatta di strutture tessili dal design senza tempo, di pezzi unici e sofisticati. Nuove forme che prendono vita in un intreccio leggero ma resistente, estremamente flessibile in termini di utilizzo, estetica e finitura, in grado di diventare struttura o rivestimento per mobili, accessori moda e oggetti decorativi. Il processo mira anche a promuovere la produzione sostenibile di pezzi unici e commissionati attraverso il tema dell’artigianato.
Che programmi hai per il 2025?
Innanzitutto vorrei lasciarmi ispirare dal mio recente viaggio in India. Questi momenti di scoperta sono indispensabili per me, mi permettono di incamerare ispirazioni che poi riemergono chissà quando, chissà perché…ma riemergono sempre. Ho comunque in programma la partecipazione al FuoriSalone MDW2025, alla prossima edizione di LABÒ Cultural Project – nei suggestivi spazi industriali dell’ex laboratorio farmaceutico SPA – con uno sviluppo di Plico. Ma soprattutto mi piacerebbe riuscire a concretizzare un progetto a me caro: nel 2025 saranno vent’anni che è mancata mia madre. Vorrei dedicarle un evento in cui il design incontri la ricerca, facendo in modo di creare un insieme di opere, mie e di altri, da poter vendere per poi devolvere il ricavato.
Giulia Mura
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