Questa volta niente gala di apertura offerto dal Primo ministro. Matteo Renzi si è dimesso e Paolo Gentiloni non si è mosso da Roma. Il profilo politico del governo in carica ha poco a che fare con l’elitismo che inevitabilmente accompagna il caravanserraglio della settimana della moda a Milano. Il New York Times, da sempre grande fan delle manifestazioni italiane, a questo proposito ha scritto: “Though in point of fact, as Milan Fashion Week got underway, the biggest trend on the runways was inclusion”.
Il New York Times è il New York Times, ma è poco convincente il fatto che il vocabolo “inclusione” possa racchiudere un trend legato alla moda, per sua natura un fenomeno elitista di massa. Perché, sebbene la definizione appaia una contraddizione in termini, il fashion contemporaneo è proprio questo. E per questo perde colpi soprattutto tra le fasce di “consumatori” che dovrebbero essere più interessate alla sua produzione. Il 40% di disoccupazione giovanile nel nostro Paese e il precariato globale che profila la generazione dei Millenial si sposa poco con i prezzi dei gingilli appesi ai corpi bionici delle modelle che si muovono sulle passerelle.
I PROTAGONISTI
Ma veniamo alle presentazioni milanesi. O almeno ad alcune tra quelle dei marchi più celebri.
Grande apertura per Gucci nel nuovo headquarter di 337.000 metri quadrati con centoventi uscite uomo e donna. Alessandro Michele ha espresso un concetto inclusivo? Forse a suo modo sì. Nel suo mood rococò c’è di tutto: punk, Oriente, Elisabetta II, gipsy… Costume più che moda? Può darsi, però funziona: almeno così dicono i numeri del suo fatturato preceduti dal segno più. Vai a capire se per merito degli accessori (borse, scarpe, occhiali profumi) o altro.
Prada invece mette un deciso segno meno davanti agli stessi numeri. Miuccia Prada e Fabrizio Bertelli hanno fatto tantissimo per Milano e la città deve essere loro riconoscente, forse più che a qualsiasi altro imprenditore meneghino. Ma qualcosa non deve aver funzionato nella galoppante espansione sui mercati stranieri. In ogni caso, anche nell’ultima sfilata, la designer sembra essere diventata una follower dell’iper-decorato e iper-colorato imposto da Alessandro Michele. Magari anche con un occhio al magnifico film di Matt Ross Captain Fantastic. Ma Miuccia è una donna intelligente: siamo certi che si riprenderà.
DA FENDI A DONATELLA VERSACE
Fendi è un altro big name delle passerelle. Romano di ascendenza ma di proprietà della conglomerata francese cui fanno capo anche Gucci, Bottega Veneta, Yves Saint Laurent e Balenciaga, Fendi è un marchio di nicchia forse più di ogni altro: perché proporre oggi pellicce come core business è davvero una sfida. Riuscire a vendere pelo animale, per quanto colorato, intagliato, rasato, stampato, rivoltato o sovra-cucito, è cosa da far tremare i polsi. Non è fair dirlo? Basta però guardare i contorcimenti artigianali che ogni sei mesi avvengono sulla sua passerella per rendersi conto che però questa è la verità.
E chiudiamo con Donatella Versace. Calabrese di nascita, milanese di adozione e cosmopolita per scelta. Il messaggio della sua passerella è tutto fuorché subliminale. Grandi lettere maiuscole per comporre slogan che nella press release sono riassunti così: “A call for unity and the strength that comes from positivity and hope”. Magari l’abito iper-trasparente decorato da un fiore e la scritta LOYALITY, da portare con sandalo aperto tacco 11 non è per tutti. Ma gli sciarponi e i cappellini COURAGE, EQUALITY, STRENGT, UNITY e LOVE sono davvero invitanti.
– Aldo Premoli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati