Moda e Millenials: sarà rivoluzione?
La moda made in Italy sembra non conoscere crisi, eppure, a ben guardare, i proprietari dei brand sono spesso stranieri. Come rilanciare l’eccellenza italiana nel campo del fashion? Magari affidandosi alla generazione nata fra il 1980 e il 2000.
Mentre l’Unione Europea chiede correzioni di bilancio all’Italia, che ha la crescita economica più bassa d’Europa, il settore della moda è tutt’altro che in crisi: il lusso, nel 2016, ha portato un fatturato di 11.254 miliardi di euro, con un utile netto di 550 milioni. Grande motivo di orgoglio, se non fosse che quelle firme italiane così forti non sono italiane. Il fenomeno Gucci, infatti, con una crescita del fatturato tale da far invidia a tutti gli altri competitor, si deve al genio manageriale di Marco Bizzarri e a quello creativo di Alessandro Michele, ma il brand è del gruppo francese Kering, come Brioni, Bottega Veneta e Pomellato, fra gli altri. Stessa storia per i risultati altrettanto eccezionali di Fendi: firma e know-how, produzione compresa, sono italiani, ma il business è del gruppo francese LVMH.
L’orgoglio italiano fa i conti con la realtà, con la constatazione di essere un valore che non riesce a gestirsi. È un bene che altri Paesi acquistano, e non a caso il successo dei brand arriva quando i francesi non mettono mano alla creatività e danno piena fiducia all’Italian beautiful mind. Siamo i più bravi a inventare e reinventare abiti e situazioni di stile: la prova più evidente è l’Orso d’oro alla carriera consegnato a Milena Canonero, un fatto più importante di qualsiasi fashion show, per chi sa leggere trasversalmente e sa vedere oltre. Quattro Oscar e nove nomination, da Arancia Meccanica di Stanley Kubrick a Grand Budapest Hotel di Wes Anderson, Canonero è una delle espressioni più alte e internazionali del made in Italy: il genio italiano che sa costruire personaggi e situazioni che fanno sognare, aiutato da artigiani di primissima qualità.
LARGO AI MILLENNIALS
È un’evidenza che spesso si fatica a riconoscere, essendo noi ancora settati su dinamiche di identità dell’alta moda o del prêt-à-porter, su Roma o Parigi, sulla collezione nuova o vecchia… Ma se ne sono accorti i Millennials. La generazione che va dal 1980 al 2000, teorizzata dai testi di Howe e Strauss, è cresciuta con tante di quelle informazioni da essere assolutamente allenata alla gestione delle cose tra vero e virtuale. Non fanno distinzione fra moda e costume, hanno letto e visto tutto Harry Potter e, grazie a strumenti come Napster e ora Netflix, si ispirano ai costumi di Peaky Blinders o alla serie cult Taboo di Tom Hardy, realizzati da fashion designer filosofi come Paul Harnden. La ricerca dell’ispirazione è più complessa per i Millennials e la loro capacità di muoversi in archivi veri e virtuali è un patrimonio fondamentale per garantire il futuro anche ai grandi brand che fatturano milioni di euro.
Si chiama Fulgore la sezione del nuovo progetto, lanciato da Fendi, dedicata alla creazione di editoriali di moda autoprodotti, dove i ragazzi compaiono con look che mixano capi nuovi e vintage. F is for… è realizzato da menti contemporanee giovanissime, un esempio di felice passaggio generazionale: cinque sezioni – Freaks, Fulgore, Faces, Freedom, Fearless –, luoghi, foto e selfie senza troppe post-produzioni fatti dagli influencer della generazione Y. Stessa strategia per Gucci, che crea una sorta di comitato esecutivo ombra che suggerisce idee e commenta le decisioni creative, uno strumento in mano ad altri Millennials, chiamati in nome di una cultura del cambiamento che per Bizzarri rappresenta un asset fondamentale di crescita.
BUSINESS E CREATIVITÀ
I Millennials rappresentano anche una importante voce di business: se fino a due anni fa non comparivano in modo rilevante, ora rappresentano il 50% del business di vendita. Si deve sicuramente a questa nuova fetta di mercato – che accomuna una generazione senza confini geografici, unita dalla Rete e dalle nuove affinità elettive basate su una chimica contemporanea fatta soprattutto di immagini condivise – il successo di brand e di uno stile che mette le calze da tennis sotto un tacco 12. Nasce una nuova estetica che nulla toglie alla bellezza “tradizionale” dell’haute couture e del prêt-à-porter: alla mitologia dell’alto artigianato, all’immortalità di ricami e di tagli impeccabili contrappone il mix delle nuove generazioni.
Esistono già nuove forme, frutto della competenza degli artigiani e dello studio in accademie contemporanee, che riescono a trasmettere un messaggio con un abito che poi diventa una campagna e anche un video; chi lo indossa è un personaggio prima di una persona, come quelli proposti dal fashion designer Frederick Hornof. È giovane ma il suo mondo di riferimento viene dalla passione per il cinema di Fassbinder: così traduce con tessuti techno la vestaglia di Petra von Kant e alle scritte sportive alterna strisce di marabù. La sua collezione, realizzata dopo aver lavorato come assistente di Thierry Mugler a Parigi, racconta un carattere femminile drammatico, contemporaneamente sottomesso e dominante, tradotto nella costruzione dell’abito fatta di contrasti materici e strutturali. Il suo lancio avviene come Hornof TV su 032c, una piattaforma digitale che si definisce manuale di libertà, ricerca e creatività. Esce con una serie di short movies diretti da Lee Wei See che accompagnano direttamente chi guarda al sito di vendita.
Sono, questi, cambiamenti di un sistema a cui bisogna guardare con attenzione e con la serenità di non essere così lontani da quel mondo, visto che l’Italia, almeno in questo campo, è al quarto posto nel mercato europeo dei social network.
‒ Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #36
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