Potremmo dire che la moda oggi non è fatta di tendenze ma di fashionscape. Forse non per tutti, ma sicuramente per Stella Jean (Roma, 1979), con la sua identità in bilico tra l’Italia e Haiti. Parlarne in questi termini significa considerarla come un medium, ponendo l’accento sul cosa racconta. Un abito può essere molto più di un oggetto. Quanti viaggi ci sono dentro? Quanti mondi? Quante culture e quante storie sociali? Ma soprattutto può essere un punto di vista sul presente e sul passato. Può anche diventare la speranza di un futuro diverso. L’attivismo, la capacità di produrre un cambiamento sociale o politico non passano semplicemente dalle strade o da prese di posizione radicali, ma possono concretizzare in un esserci. In una presenza consapevole e capace, attraverso il lavoro, di costruire il mondo in cui ci piacerebbe vivere.
Tuo padre è originario di Torino, che ha una lunga tradizione nella moda. Sei nata a Roma, ma la tua vocazione ha radici più lontane?
Mio padre ha sempre amato la sua città e ha portato con sé la sua esperienza. Quand’ero bambina lo accompagnavo dal sarto, trovandomi di fronte a un rituale maschile molto affascinante. Non si trattava solo di provare degli abiti, ma si passavano ore a chiacchierare. È stato il mio primo contatto con la sartoria e con una visione della moda che la traghettava verso l’attualità dei discorsi e una dimensione sociale. A colpirmi era la cura, con cui venivano trattati i capi. Non era vanità, ma una comunicazione non verbale che si realizzava attraverso la moda.
Il tuo esordio vero e proprio però è avvenuto attraverso il concorso di Vogue Italia e Alta Roma.
Sì, nella prima collezione ero partita dalle mie radici italiane, legate all’artigianalità, agli antichi saperi e alla pittura su stoffa. Ma né il primo né il secondo anno la mia proposta risultò convincente. Al terzo, decisi di portare in passerella qualcosa che fosse solo mio. Iniziai a riflettere sulla mia adolescenza, sull’essere sempre stata in bilico tra due culture: italiana e haitiana, trasformando quel sentire in look, combinando elementi della sartoria italiana con forti cromatismi di matrice caraibica, richiamandomi alle radici nere di Haiti. La mia condizione di metisse mi consente di far dialogare le culture, tendendole sullo stesso piano, rinunciando a quello sguardo da safari bianco sul continente nero, alla Karen Blixen.
Oggi il nomadismo è un tema ricorrente, come le riflessioni sull’appropriazione culturale. In che modo la tua visione dell’Alterità incontra l’ethical fashion?
Ho lavorato in Burkina Faso, in Mali, ad Haiti, in Perù, in Bolivia e in altri Paesi, con un punto di vista preciso: crescere insieme. Non guardo al “terzo mondo” in vista di una delocalizzazione produttiva. E non utilizzo l’ethical fashion come strategia di marketing. Nella collezione dedicata ad Haiti ho affrontato molti temi: l’arte naïve, la letteratura, l’architettura, con lo scopo di fare conoscere quel Paese che, dopo il terremoto, era stato assimilato a una gigantesca bidonville. Haiti invece è una fucina di talenti. A me interessa attivare dei discorsi e tradurre le competenze e le peculiarità di quegli artigiani in oggetti, che rappresentino un incontro e un racconto reciproci.
Gli studi post-coloniali hanno mostrato la stretta relazione tra le micro-storie e la condizione femminile. Con Las Cholitas Luchadoras quale messaggio volevi veicolare?
Pensiamo ancora che il nostro ruolo di occidentali sia quello di salvare e catechizzare. Scoprire in Bolivia una comunità di donne che ha conquistato la propria autonomia attraverso una pratica aggressiva, senza rinunciare ai propri costumi, è stata una bella risposta alla nostra emancipazione. Las Cholitas Luchadoras non hanno abbandonato né gonne e sottogonne né ballerine e trecce, lasciando convivere femminilità e tradizione e lottando per cambiare la condizione che le bandiva dalla città, per via dei loro abiti. Oggi siamo tutti sottoposti a un processo di “creolizzazione”, destinati a incontrarci. E dobbiamo farlo nel migliore dei modi.
Come hai mixato le ispirazioni provenienti dalle Cholitas con la tua visione dell’italianità?
Attraverso un ossimoro stilistico. Introducendo due elementi a contrasto, come le gonne ampie e la maglia sportiva, per sottolineare l’allenamento che sta dietro all’esibizione della lotta e bilanciare l’ispirazione proveniente dall’altra cultura. Non si può ripetere la storia di altri, sarebbe un errore e una mancanza di rispetto. Il mio obiettivo è combinare una visione sartoriale e il lavoro delle mie artigiane italiane con costumi e tecniche di altri Paesi del mondo.
Pensi che questa capacità di mettere in dialogo mondi distanti, di surfare tra cultura popolare e arti, di richiamarsi a più media rappresenti anche una tensione generazionale?
Sì, mi sento dentro una grande onda, guidata dalla ricerca del senso e da una visione più sincretica. Nell’ultima collezione ho collaborato con Christopher Griffin per le stampe, mentre in passato ho accompagnato i miei abiti con gioielli d’autore di artisti come Giorgio Vigna o Ai Weiwei. Penso che la moda sia una buona piattaforma per esprimere questa convergenza, che fa parte sia del DNA italiano che haitiano.
Come guardi alla donna, tra maschile e femminile, in una società di migrazioni più o meno fortunate, nel lavoro o da un punto di vista estetico?
Non ho una donna ideale, anche se ogni collezione ha la sua musa. La mia eroina dell’infanzia era Rigoberta Menchú; il suo attivismo, che si traduceva anche nella volontà di mantenere i propri usi e costumi, mostrandosi in pubblico in abiti tradizionali. La donna a cui parlo non ama semplicemente la bellezza, ma è curiosa di conoscere la storia che si nasconde dietro a un capo di abbigliamento.
La sfilata è un momento importante, in cui la performance prende il posto della parola. Che cosa rappresenta per te?
Comincio sempre con un urlo, una registrazione degli Anni Sessanta, che funge da “chiamata alle armi”, perché una collezione racchiude idee, emozioni e professionalità. Quella de Las Cholitas Luchadoras è iniziata con un video, per spiegare il dialogo con un’altra cultura e i suoi costumi. La scelta stessa della musica, Let The River Run, il tema di Working Girl, voleva avvicinare le storie delle donne che lottano in Bolivia a quelle delle donne occidentali nel loro percorso di emancipazione.
– Carlotta Petracci
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